Bruno ha quasi quarant’anni e fa l’informatore medico. La sua azienda, la Zafer, sta vivendo un momento difficile.I venditori di medicine saranno messi sotto stretto controllo per valutare le loro performance e decidere chi resterà. Ufficialmente Bruno dovrebbe far visita ai medici, presentare le ultime novità in fatto di ricerca farmaceutica, capire con loro l’effetto dei farmaci sui pazienti. Ma le cose si svolgono in modo diverso. In cambio della prescrizione del proprio farmaco, Bruno, in linea con la politica aziendale, offre ai dottori i regali più svariati: da uno stetoscopio ad un finto convegno in località esotica, da un computer palmare ad un’auto di grossa cilindrata; e poi titoli di studio, droga, sesso. La Zafer, come tante case farmaceutiche, pratica il comparaggio: una pratica illegale.
Bruno indossa i panni decorosi di un normalissimo professionista: sua moglie mnon sa niente dei traffici illegali, né delle pressioni che sta subendo dall’azienda a causa della crisi. Bruno si è abituato ad un tenore di vita a cui non vuole rinunciare. Ma la situazione al lavoro precipita e per non essere licenziato non gli resta che tentare un colpo veramente rischioso: corrompere un primario, il Prof. Malinverni, così da poter far entrare nell’ospedale il farmaco chemioterapico dell’azienda. Bruno è vittima e carnefice di una spirale nella quale la consapevolezza gioca il ruolo di arma a doppio taglio.
Il venditore di medicine è stato presentato al Festival del Film di Roma fuori concorso. A fine proiezione il pubblico si è alzato in una lunga ovazione e chiacchiericcio stimolante echeggiava sulle scale attigue al foyer. Quasi tutti unanimi nel ritenere che c’era bisogno di una pellicola del genere, in Italia, in questo momento storico. Perché Il venditore di medicine è un film di denuncia. Un film forte. Un film dalla parte dell’etica. La stessa etica a cui sembra rimandare Isabella Ferrari quando, in conferenza stampa, ha dichiarato: «è stato facile fare questo film! del resto qui siamo tutti dalla stessa parte», sorridendo allusiva al resto del cast. E se è lecito domandarsi quanto abbia ancora senso fare film di denuncia, la risposta del produttore e co-sceneggiatore Amedeo Pagani, suona rassicurante: «Oggi, in questo paese, siamo tutti su di un onda che cavalca ciò che piace al pubblico. Ma il cinema dovrebbe rappresentare qualcosa di più: un’identificazione sociale che tuttora si è persa»; terminando il suo ragionamento con una provocatoria accusa nella «noi siamo abituati al peggio e questo andava raccontato».
Il venditore di medicine ha raggiunto il suo scopo: informa circa una prassi penalmente rilevante, attraverso una sceneggiatura ben scritta che cattura l’attenzione dello spettatore ed insinua nella coscienza un interrogativo morale. Ottima la scelta di prendere come protagonista un informatore medico in quanto figura familiare, non distante dalla quotidianità di chiunque. Come suggerisce il regista Antonio Morabito: «è una pedina piccola, ma si comporta nel piccolo esattamente come la sua classe dirigente si comporta nel grande. Bruno, apparentemente mostruoso, non è altro che l’emblema della società che lo circonda».
Delle signore , all’uscita dell’Auditorium, si scambiano considerazioni sul film appena visto. Annuiscono sul coraggio del regista, “ce ne vuol tanto per girarlo”. Io mi domando come sia possibile che raccontare la verità possa associarsi al coraggio. Non è forse questo stesso pensiero una forma di censura narrativa? Allora si, un film del genere era proprio necessario…