Il tempo dei Discorsi alla nazione di Ascanio Celestini
Di cosa parliamo quando parliamo del tempo? Piove, c’è il sole, è troppo freddo, troppo caldo: la meteorologia è il passepartout della vox populi, il sipario che si alza sull’uomo qualunque. Nei Discorsi alla nazione di Ascanio Celestini si parla del tempo. Piove. Piove in continuazione, come in Blade Runner. Ma può piovere per sempre? Non sarebbe poi un gran male, visto che qui, in fondo, si parla di pioggia per non parlare di guerra. In questo paese, che riconosciamo benissimo anche senza nominarlo, c’è una guerra civile. La nazione però si aggrappa al suo transfert come a un salvagente—e parla della pioggia.
Prima che un discorso alla nazione, quello di Celestini infatti è un discorso della nazione. Illuminato da una lampada sempre diversa, l’attore e autore diventa ogni volta un diverso uomo qualunque, un diverso inquilino di un condominio che è correlativo oggettivo di un essere sovraindividuale distratto, obliterato, alienato, cullato dall’oblio, preoccupato di mantenere l’atonia come ultima e decisiva difesa. Ben stretto sotto il suo ombrello. Per quanto miserevole questo possa essere. Non si smette di sperare però nella fine della pioggia, nella ricomparsa dell’ordine, nella fine della guerra. Abbarbicati al proprio piccolo mondo, l’attesa di questi personaggi è tutta indirizzata all’apparizione dell’Uomo Forte, del grande rassicuratore, del pifferaio magico che ne prolunghi l’incantesimo, alimentando quella vita da eterni Sonnambuli.
Ascanio Celestini va in scena a luci accese e pronto alle spiegazioni e didascalie, inizia a parlare dello spettacolo finché, con naturalezza, quasi senza accorgersene, nello spettacolo ci si scivola. Un lavoro continuo sulla sovrapposizione, sulle identità mescolate: l’identità tra la spiegazione e la rappresentazione, tra l’interprete e il personaggio, tra il testo e il contesto, tra lo spettatore e lo spettacolo. Perché nel teatro di Celestini, e questo rende davvero civile la sua opera al di là delle etichette, non ci sono i giusti e gli sbagliati. E se siamo un paese con il vizio del fascismo, eternamente nuovo eternamente uguale, il problema è nostro, non bisogna cercarlo fuori dal cerchio del nostro ombrello.