«Un suicidio lungamente premeditato, pensai, non un atto repentino di disperazione», cosí comincia il romanzo Il soccombente di Thomas Bernhard. Un’epigrafe chiara e laconica che pur tuttavia pone una questione irrinunciabile: chi è alla fine a compiere il gesto estremo?
Al Mozarteum di Salisburgo due pianisti austriaci incontrano uno straniero, un canadese, Glenn Gould, il cui genio ineguagliabile li condannerà a un imbarazzante senso di ammirazione che li porterà ad abbandonare lo strumento e a convivere affannosamente per il resto della loro vita con la folgorazione delle Variazioni Goldberg. Ma chi è a suicidarsi? Gould, ucciso da «la totale mancanza di vie d’uscita in cui lui stesso si è cacciato suonando per quasi quarant’anni»? Wertheimer, il soccombente, impiccatosi per sfuggire al fantasma del proprio compiaciuto e paralizzante fallimento? O l’anonimo narratore, il filosofo, che in un dialogo interiore con la coscienza e i ricordi incide a colpi di gesso lo sfondo luttuoso del proprio passato?
La regista Nadia Bianchi mette in scena al Piccolo Eliseo questa tormentata confessione ambientandola in un suggestivo sottosuolo che sembra quasi suggerire una caverna nascosta nel cuore del Mönchsberg (il cosiddetto monte dei suicidi dove si incontravano i tre pianisti), una camera oscura sorvegliata da un candido spettro (Marina Sorrento) che custodisce i rimorsi, i dolori e i silenzi, restituendo loro per qualche istante fugaci barlumi di vita.
Ma qual è il suicidio «lungamente premeditato»? Roberto Herlitzka ripropone con mestiere il testo di Bernhard (ridotto fedelmente da Ruggero Cappuccio) ma non vi dialoga, lo fa piuttosto con il pubblico, anche troppo sardonicamente, e si dimentica perciò del suo personaggio che pareva sussurrare la verità nel buio e annientare così la propria esistenza, solo un riflesso opaco dei pensieri altrui e delle proprie parole: taciute, mai dette in tempo, solamente pensate.
Piccolo Teatro Eliseo, Roma – 6 dicembre 2013