Il ritorno a casa è un’opera di Harold Pinter del 1964, un dramma teso e acre, un crogiuolo di tensioni che ruotano intorno ai temi del confronto tra i sessi, della violenza famigliare, della paternità e della sessualità. La scena è un interno londinese working class anni Sessanta, un appartamento dove vive un uomo anziano con il fratello e due figli. Ad agitare e mettere in moto il dramma interviene il ritorno a casa del terzo figlio, Teddy, dopo molti anni, per presentare finalmente la moglie alla famiglia.
Peter Stein dirige un gruppo di attori (su tutti Paolo Graziosi, Alessandro Averone e Arianna Scommegna) in grande forma senza grossi effetti speciali registici. La scenografia è fissa, le luci suggeriscono lo scorrere del tempo tra incontri e scontri verbali all’interno dello spazio comune, salotto ampio e vuoto come un ring. E proprio come sul quadrato pugilistico ogni personaggio è solo e in aperto conflitto con l’altro. Per più di due ore si assiste a una serie di dialoghi affilati e violenti, il cui scopo appare sempre una presa di potere, verbale e sessuale, dal senso circoscritto alla mera affermazione di una gratuita superiorità virile.
Ruth, unica portatrice di una femminilità oggettivata dal discorso maschile, è la vittima che piano piano trova il modo di scardinarne le dinamiche e assumere il centro della scena, in un finale in cui lo scavo registico sul testo e sulle tensioni drammatiche si mostra finalmente forte. Abbandonato l’inetto marito uomo di cultura, quindi maschio a metà, privato dell’animalità bruta e primordiale dei suoi parenti si tramuta in dominatrice, riducendo all’adorazione del femminino la violenza dei maschi alfa. Un cambio di segno che lascia un senso di disagio e d’irrisolto, senza catarsi e senza vendetta, ultimo colpo di scena sul ripugnante ring a cui Pinter riduce la famiglia.