Il padre – Fatih Akin
Nazareth vive con la sua famiglia a Mardin, una città dell'ex impero ottomano, popolata da una folta minoranza armena, vessata dai turchi, decisi a sterminare l’intero popolo di religione cattolica. Nel 1915 cominciano le violenze e le prime deportazioni: Nazareth è allontanato dalla sua famiglia e apparentemente arruolato come soldato, ma in realtà assegnato ai lavori forzati e, ben presto, destinato a una spietata esecuzione insieme ai suoi compagni. Sopravvissuto miracolosamente alla strage, Nazareth comincia un lungo viaggio della speranza per ritrovare la sua amata famiglia.
Il pubblico di Venezia applaude, come alla fine di ogni proiezione e questo mi fa pensare che lo faccia sempre, forse per dovere o per educazione. Non posso credere infatti che la folta platea, dotata di senso critico, abbia davvero apprezzato quest'opera poco riuscita, risultato di una co-produzione europea tra ben sette paesi, tra cui l'Italia.
Il padre, diretto dal regista tedesco di origini turche Fatih Akin, attraverso il lungo viaggio di Nazareth, affronta un tema importante, quello del terribile e programmato genocidio del popolo armeno a opera dei turchi. Un tema che avrebbe meritato un risultato migliore di questo film che invece risulta essere piuttosto modesto. In primo luogo appare criticabile la scelta di girare gran parte del film in lingua inglese (anche se in Italia lo vedremo doppiato). La recitazione, la spontaneità, la credibilità dell’interpretazione appare fin da subito minata, e si aggiunge a una generalizzata rappresentazione che sa di artefatto. La storia è un susseguirsi di eventi e incontri prevedibili, raccontati con banalità e in modo didascalico, dalla prigionia al deserto, dai miraggi alla sete, dal buon samaritano al lieto fine.
Ogni persona che incontra ha in bocca le parole che dovrebbe dire mentre Nazareth, il protagonista, di parole non ne ha proprio, poiché per una violenza subita nel corso del viaggio, perde presto la possibilità di parlare, costringendolo a un goffo gioco dei mimi durante tutto il film. Tahar Rahim, che lo interpreta, poi non mostra una nutrita varietà di espressioni, tanto da sembrare emozionarsi a comando. Anche la musica infine non sembra particolarmente azzeccata, a tratti ingombrante e distonica, anche se può sembrare un tentativo per dare un po’ di personalità a una messa in scena piatta e incolore, nonostante la spettacolarità di molti paesaggi.
Non si soffre con Nazareth, perché nemmeno si ha il tempo di affezionarsi a lui, né tanto meno alla sua famiglia che lo spettatore incontra per pochi minuti all'inizio del film per poi dimenticarla rapidamente, nonostante sia il fine ultimo della disperata ricerca del protagonista. Il padre, a mio parere, sembra destinato alla Tv, più che al cinema, e per questo è tra i film più trascurabili di questa edizione della Mostra di Venezia.