Al diavolo l’urgenza!
L'atarassia ribelle di Santeramo illumina il presente a Pontedera
Si fa tanto parlare di urgenza: artisti, politici, giornalisti. La invocano a più voci, quasi che stessimo lì lì per perdere il treno della speranza, ché se non ci sbrighiamo il futuro ci abbandona e per sempre.
Ma—veramente vogliamo credere a una frottola del genere? Veramente non riusciamo a capire che questa compulsività è figlia del mercato? che quest’urgenza ripetuta a pappagallo sta al pari dell’offerta speciale, dell’edizione limitata, dello sconto pazzo che scade fra cinque, quattro, tre…—e di cui nessuno, passato il momento, avrà più nostalgia? Mettere fretta serve solo a far agire senza pensare (siamo al quarto premier non eletto in tempo di “crisi”, ad esempio).
Così, mentre troppo teatro si affanna a voler dimostrare che è “attuale” ostentando goffa “contemporaneità” con scritture scimmiottanti il cinema, le serie tv, internet, dove gli amanti di Verona si fanno una sigaretta sulla tomba, il moro di Venezia impazzisce per un video porno o il principe di Danimarca si deprime in chat, qualcuno viva iddio conserva un po’ di dignità e si interroga seriamente sul presente.
È il caso di Michele Santeramo (classe 1974), che le scorse settimane ha debuttato al Teatro Era CSRT di Pontedera con il suo nuovo testo Il nullafacente, per la regia del patron di casa Roberto Bacci. Al contrario di tanto ciarpame contemporaneo, qui il drammaturgo pugliese conserva il lucido distacco di chi osserva i fenomeni senza inseguirli, mantenendo – al tempo stesso – un dialogo aperto con la cultura del passato.
Il protagonista di questo dramma infatti è un uomo che, un po’ figlio del Bartleby di Melville, un po’ dell’Oblomov di Gončarov, ha deciso – letteralmente – di non fare più nulla. Ma se l’uno era chiuso nel suo laconico rifiuto a svolgere qualunque consegna, e l’altro oscillava tra l’ozio e la trascuratezza, il Nullafacente di Santeramo è un nichilista che tende alla più consapevole atarassia. Un’atarassia ribelle.
La scena di Bacci è minimale, la mano pacata, generosa, quasi invisibile, tesa a favorire il testo senza ingombri: pochissimi contrappunti musicali, luci discrete, appena un tavolo, una poltrona, qualche sedia—tre rivolte spalle al pubblico a mo’ di disimpegno (al posto delle quinte). Nella piccola Sala Cieslak, nero su nero (è un vuoto che si deve “vedere”), la scena si chiude a imbuto in un angolo cavo, squarciato su altro nulla nel nulla, dove l’intero dramma si impernia e si incastra. Quattro uomini, Santeramo compreso, una sola donna: Silvia Pasello, veterana – pluripremiata – del teatro pontederese. Ma torniamo al testo.
Santeramo evita subito i possibili inciampi amorosi à la Oblomov e invece dello scapolone ottocentesco (con tutto il suo carico di frustrata impotenza) ci presenta un antieroe coniugato. Lei, tuttavia, è malata: «terminale» come non mancherà di ricordarle lui. Sarà proprio l’ineluttabilità della morte a innescare l’azione, o meglio, a mettere in discussione tutta quanta l’inazione del Nullafacente.
– Devi tornare a lavorare, a renderti utile.
– Il lavoro non è utile, è schiavitù il lavoro.
– Mo’ il mondo è fatto tutto di schiavi.
– E di cosa?
– Di gente che sceglie! Tu. Io.
– Ma cosa! Tu non scegli niente, tu devi solo correre: correre per tornare da lavoro, correre per spendere i soldi, correre per sentirti minimamente vivo. Ed io avevo smesso. Non ero più schiavo di niente. Ma a voi le persone come me fanno male agli occhi perché vi metto davanti quello che potreste essere e che non sarete—mai.
Il protagonista di questo dramma, dunque, non è un pigro né un picchiatello: sicuramente è un radicale, ma ha il tipico «mal di denti» esistenzialista che a cavallo tra Ottocento e Novecento ha regalato pagine di impietosa e straordinaria letteratura. Nel tipico stile di Dostoevskij, infatti, Santeramo cosa fa? Non si accontenta della bella trovata creativa (come è tipico delle nuova generazioni) ma la porta alle estreme conseguenze: la lascia realizzare, e una volta realizzata la mette in discussione, poi insiste, prosegue con un’ulteriore evoluzione, senza stacchi a effetto, senza patetismi, no, persevera in una polifonia di possibilità le quali, avendo modo di accadere, si dimostreranno molto meno paradossali di quanto sembrassero inizialmente.
Certo, chi desidera le storie narrativamente rassicuranti rimarrà deluso (trama e sottotrame sono esili) e forse un po’ stordito da questa progressione più simile a un dialogo socratico che a una parabola teatrale. Ma qui si rinuncia al pathos per andare al fondo del problema. Il nullafacente non è un morto di fame buono per piangere sulla neo-povertà del XXI secolo, è un atarassico ribelle, uno strano incrocio tra un monaco buddhista e un fervente nietzscheano, uno che ha deciso di dire no alla follia produttiva che chiamiamo normalità (l’oggettino da Tiger, la gita all’Ikea, il sushi il venerdì, l’aperitivo il sabato, il brunch la domenica, il voto, la foto, il filtro, il post, il commento, la condivisione, il gadget… «e tutti i cazzi che ve se fregano», avrebbe detto Sordi in Finché c’è guerra c’è speranza), e lo fa nel più drastico dei modi: con l’inazione.
Fare in modo che le cose vadano dove vuoi tu. Dove vuoi che vadano ‘ste cose? Non vanno da nessuna parte. Per spingerle dove volete voi vi riempite le giornate di cretinate: e compra il nano per il giardino, e la coperta nuova, e la passeggiata, la maglia, tutte cose con le quali provate a dimenticare che avete paura: la morte è ogni volta che perdete tempo. E invece per voi perdere tempo è la maniera di passare la vita. Siete stupidi. E a me non interessa.
È una scelta estrema la sua e, nonostante la circolarità della vicenda, non mancherà di metterlo in contraddizione: egli non ha il piglio orientale dell’accettazione, egli nega, che è ben diverso; così, la sua perfetta inerzia di fronte all’iperattività socioeconomica contemporanea – perfetta come il suo ordinatissimo bonsai, correlativo oggettivo (innaturale) del suo ideale di vita – è una soluzione “facile” che non può dare risposta a tutto:
Sapevo che prima o poi sarebbe successo. E sapevo anche che non avrei rinunciato a fare niente: né per lei né per nessuno. […] Lo sapevo che fa male. Però così no. […] E invece lei va via e fa male. Perché? Tu lo sai? Guardami. Sempre uguale! Ma come ci riesci? Come fai ad essere sempre esattamente quello che sei. Voglio dire, anche per te ci sono cose da fuori che provano a cambiarti la forma: la luce, l’acqua, il vento, io. E invece niente. Tu—bonsai. Non ti capita mai di voler diventare, che ne so, una quercia. […] Ti capita? E dov’è che trovi la forza per rimanere bonsai? Tu dici che siamo quello che vogliamo, però mi spieghi perché? Tu te ne stai tutta la vita nel vaso però non spieghi dov’è che trovi la vita. Dimmelo. Io ti ascolto. […] Che significa che non bisogna ascoltare fuori? Ascoltare dentro… come si fa?
La vera condanna del Nullafacente non è, appunto, il suo radicale rifiuto di un modello economico – liberista-consumista – che ci ha portati ad accentrare la ricchezza di mezzo mondo nelle mani di otto persone, anzi… (prima o poi si capirà che la “crescita” è una autolesionismo da potentiae cupido); ma il fatto che non sappia creare relazioni con i suoi (possibili) simili, finendo così per trincerarsi in un ascetismo nichilista che, sebben lucido, è mortifero al pari di ciò che lo innesca.
Mentre dal fronte americano, insomma, giungono film come Into the wild o il più recente Captain Fantastic sulla scia di Emerson e soprattutto Thoreau, la cara vecchia Europa fatica a scrollarsi di dosso la sua lunga cultura in favore di una naturale wilderness (abbandonata troppo tempo fa, ormai), ripiegandosi piuttosto su un integralismo ideologico: forse laico, magari concettualmente condivisibile, ma ben buio. Ed è quello stesso integralismo che, nelle sue forme più acute, si riversa oggi in ortodossie improvvise, rigurgiti nazionalisti, regimi alimentari intransigenti, o altre facili etiche prêt-à–porter.
Santeramo non ci invita però a simpatizzare per ciò che scrive, sarebbe troppo facile: lascia avvicinare molto, sì, moltissimo, tanto da aderire al suo protagonista, quasi al punto di dimenticarne le tare (gli altri personaggi sono deboli di argomenti, egli vince dialetticamente ogni volta), ma poi ci mette in guardia mostrandocene le contraddizioni; il trionfo finale della sua ragione è ben più nero di quel che sembra, e dovrebbe farci riflettere sulle conseguenze di un cinismo senza freni.
Il drammaturgo, insomma, proprio alla maniera di Dostoevskij (che sembra il vero nume tutelare di questo dramma), dissemina piccole perle che, raccolte assieme, ci restituiscono la visione polifonica di un tempo finalmente complesso—il nostro.
Eccola dunque l’autentica contemporaneità, ecco cosa significa tentare di storicizzare il presente. Bacci forse si pone troppo “al servizio” del testo, o forse il testo si presta poco a un intervento registico, ad ogni modo lo lascia parlare e, ancora più importante, respirare tra le note del contrabbasso di Ares Tavolazzi e i felicissimi ripetuti silenzi (finalmente un po’ di spazio per il silenzio a teatro!) che puntellano il prezioso non detto di questo spettacolo (come quella sigaretta, tipico cliché teatrale, che ci mette oltre quaranta minuti per accendersi).
Santeramo sembrerebbe proseguire l’indagine sul “potere quale responsabilità innanzitutto individuale”: se un anno fa nel Preamleto (allora immiserito dalla messa in scena) il Re Amleto (forse lo spettro di Amleto stesso) diceva al figlio di non vendicarlo (più), qui il Nullafacente ci mostra cosa accade quando il potere neppure lo si contesta più, perché – ben più importante – lo si disconosce. Un gesto più clamoroso di qualunque rivoluzione.
Altro che dissennata urgenza! Finalmente una scrittura – pregna – che ci invita a scansare le risposte facili e immediate. Per ritornare a una sana, doverosa complessità.
Ascolto consigliato
Teatro Era CSRT, Pontedera (PI) – 12 marzo 2017
In apertura: Foto di scena ©Guido Mencari
Crediti ufficiali:
Fondazione Teatro della Toscana
IL NULLAFACENTE
di Michele Santeramo
regia, spazio scenico Roberto Bacci
con Michele Cipriani, Silvia Pasello, Francesco Puleo, Michele Santeramo, Tazio Torrini
musiche Ares Tavolazzi
luci Valeria Foti, Stefano Franzoni
assistente alla regia Silvia Tufano
allestimento Sergio Zagaglia, Leonardo Bonechi
assistente ai costumi Benedetta Orsoli
immagine Cristina Gardumi