Il nostro tempo non è ancora liberato
Dalle lapidi della Futa al buio dell’Arena: il Macbeth di Archivio Zeta discende in scena
Avevamo lasciato Macbeth la scorsa estate vagare tra le lapidi anonime del cimitero germanico della Futa, lo ritroviamo ora nell’impenetrabile oscurità scolpita nel boccascena dell’Arena del Sole. Nessun cielo sereno stavolta, nessun passo libero, il tempo è sospeso e aleggia come una nebbia tragicamente scozzese sulla sala bolognese.
È decisamente uno spettacolo “altro” quello che Archivio Zeta con grande pervicacia sta “traducendo” sui palchi italiani (per un’analisi più dettagliata del lavoro – a integrazione del presente articolo – rinviamo a L’uovo sterile della morte). Non si fugge più. Lo sguardo dello spettatore è costretto ora a lasciarsi inghiottire dalle tenebre della follia di Macbeth; eppure non si disperde: dal fondo, centrale, una luce lo inchioda ogni volta: opaca e incandescente fìssa, come un ordigno pronto a esplodere nella raggelata sospensione della scena.
È un occhio vigile che avanza, ricorda il fanale di un treno sordo che si appressa nel silenzio, sembra pulsare, quasi che la locomotiva attizzata dalle sorelle fatali montasse la sua corsa: il destino? il delirio? la colpa? il terrore della fine? Poco importa. È un destriero chiamato ossesso che è lì lì per irrompere. Spinge, schiaccia, soffoca—eppure no, è un’illusione, non si muove: quella luce è immobile, perturbantemente immobile. Incombe.
Con la «messa in palco», il Macbeth di A.Z. raggiunge una piena pregnanza di segni. Come una tela di ragno ogni nuovo nodo drammaturgico si intreccia all’originale shakespeariano senza mai staccarsi dal centro. Proprio la concentricità sarà il tratto caratterizzante di questo nuovo adattamento, una concentricità che da spaziale si fa temporale.
Macbeth forza il tempo perché non sa confrontarsi con il presagio di una gloria ventura: egli è un guerriero, un uomo d’azione, è incapace all’incompiutezza; così, compie anzitempo ciò che potrebbe accadergli spontaneamente, corrompe e si corrompe, fende insomma il tempo alla cieca, generando soltanto un buco nero in cui lo scorrere si interrompe e tutto il presente sprofonda in una spirale dove timori e colpe (cioè futuri e passati) convivono innaturalmente. Tutto si fa incubo.
Ecco allora che all’interno di questa visione concentrica e convergente ossessioni ogni elemento – scenografico, drammaturgico, spaziale – si inanella: la luce al centro è un punto che richiama l’immagine dell’uovo cosmico, richiama l’obiettivo rosso dello schema dell’aereo americano Enola Gay e dunque richiama la minaccia ultima della bomba atomica.
E dal centro, come echi nell’acqua, ciascun cerchio spinge oltre il limite il precedente, allargandone il raggio d’involuzione. Vediamo così le grandi lancette staccarsi dall’orologio per conficcarsi nell’assassinio precoce del re: de-centrando il tempo, è come se Macbeth cercasse di sostituirglisi, innescandone uno tutto proprio, non tempo nuovo però, bensì tempo negato, compulsione di controllo. Il cerchio diventa così portale di ossessioni, coazione a ripetere, orbita di smarrimento.
Tuttavia, in questo pregnante vorticare di segni, dobbiamo notare anche stavolta che, seppur poeticamente coerente, la recitazione solenne e stentorea adottata da A.Z. continua a frapporre – a nostro avviso – una certa distanza, che soprattutto sulla lunga durata rischia di abituare il pubblico al proprio andamento e pian piano allontanarlo (per questo ad esempio la voce improvvisamente infantile di Enrica Sangiovanni, nella follia finale di Lady Macbeth, risulta invece particolarmente efficace).
Ciò detto, è vero altresì che la recitazione in sé ha un peso volutamente liminare. Qui la tragedia tende infatti alla rarefazione: ogni passo scava il vuoto in cui precipitare: è un ritmo manco: non procede: smotta. In questo invasamento totale, fagocitante, di oscurità dentro oscurità, l’ «attorno» pian piano si dissolve fino a farsi dimenticare. Nessun orfano erede verrà a riprendersi la corona. Perché non esiste corona, non esiste orfano, non esiste re. Non esistono altri personaggi. E non potrebbero. Qui non si narra alcuna storia. Il tempo è il vero soggetto del Macbeth di A.Z. E non a caso lo spettacolo si chiude con la frase «Il tempo è liberato.» (stavolta decisamente più “detonante” che alla Futa). Proprio in questo senso va còlta la sovrapposizione fra l’ansia di potenza di Macbeth e la bomba atomica americana: un nulla (il potere) che divora un altro nulla (il tempo).
E non è forse del nostro presente ingolfato che si sta (anche) parlando? Come a chiederci: dov’è che ci stiamo spingendo?
Se alla Futa il sottotesto di questa riscrittura veniva assorbito in larga parte dall’eloquenza muta del luogo, ora si lascia cogliere in tutta la sua evidenza. Non solo ci stiamo pregiudicando il futuro, sembrerebbero suggerire Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni, ma forse stiamo precipitando in un delirio di potenza (o smania di avere, o voglia di acquistare, o desiderio di mostrarsi… – per usare termini più vicini alla cronaca) che in realtà preclude il presente stesso. Una spirale in cui ci stiamo cacciando con le nostre stesse mani.
O a volerla dire proprio in parole povere: magari siamo anche destinati a diventare re (leggi “ricchi, famosi, adorati, ecc.”), ma forse per questo dovremmo volerlo?
Arena del Sole, Bologna – 12 aprile 2017
MACBETH
essere (e) tempo
di William Shakespeare
drammaturgia e regia Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
con Stefano Braschi, Francesco Fedele, Carolina Giudice, Antonia Guidotti,
Elio Guidotti, Gianluca Guidotti, Ciro Masella, Giuditta Mingucci, Alfredo Puccetti, Enrica Sangiovanni
e con la partecipazione straordinaria di Oscar
partitura sonora Patrizio Barontini
percussioni Luca Ciriegi
fiati Gianluca Fortini
scenografie e costumi Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
luci Luca Piga
laboratorio scenografico Morgantini
sartoria Emanuela Paradiso
assistente coreografa Carolina Giudice
assistente tecnico Andrea Sangiovanni
coordinamento organizzativo Luisa Costa
organizzazione e amministrazione Lucia Guida
foto di scena Franco Guardascione
grafica Weblogodesign
produzione Archivio Zeta e Elsinor
in collaborazione con
Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro dell’Argine, Comune di Bologna – settore cultura, Bé bolognaestate
con il contributo di
Regione Toscana – settore spettacolo
MiBACT Ministero per i Beni e le Attività Culturali