Mercante di Venezia – Valerio Binasco

Il Mercante di Venezia – Valerio Binasco

Avete presente A.I.-Intelligenza Artificiale? Il progetto incompiuto di Kubrick? Che come film di Spielberg, poi, non era neanche tanto male, ma a vedere la riflessione originale trasformata in polpettone fantascientifico dava un certo prurito? Ecco, Il Mercante di Venezia in scena all’Argentina fa un effetto simile. Ma si badi bene, non stiamo proponendo provocatori paragoni o pontificando causticamente che Valerio Binasco è il goffo Spielberg della situazione, no l’equazione è un’altra: Kubrick sta a Spielberg come Binasco sta a “x”. Sì perché Shakespeare non c’entra, il punto è un altro – che ne è del regista della prima metà dello spettacolo?

Dunque, tutto era cominciato bene – ma forse prima un paio di rapide coordinate. Il Mercante di Venezia è una delle opere più interessanti del Bardo: il vero protagonista della pièce, infatti, l’Ebreo Shylock, non rappresenta semplicemente un carismatico antieroe shakespeariano ma un personaggio dalla complessità psicologica a tutto tondo che ne fa anello di congiunzione tra Iago e Caliban. Vale altresì la pena ricordare che prima dell’Olocausto non si usava proprio il guanto di velluto per parlare degli Ebrei, anzi, era soprattutto su questi che ricadeva la maggior parte delle battute, degli insulti e della malignità (basti pensare che ancora oggi a Roma dare del “giudeo” o del “rabbino” a qualcuno è tutt’altro che un complimento). Nell’opera del drammaturgo inglese, dunque, al di là dell’ampia cornice favolistica – le prove, il pegno d’amore, il mascheramento, il capovolgimento finale -, è difficile intuire chi e se, dopotutto, stia dalla parte del giusto, o, come avrebbe detto Shakespeare, “distinguere tra il fair e il foul“. Ma ritorniamo all’Argentina.

Tutto, dicevamo, era cominciato bene. In una cornice leggera da commedia dell’arte (costumi di Sandra Cardini), da una parte il Mercante di Venezia, Antonio (Nicola Pannelli), si mostrava uomo pragmatico, di poche parole, borioso e schietto come un piccolo borghese arricchito; dall’altra Shylock (Silvio Orlando) che con la sua mise da usuraio stile Lower East Side Manhattan anni ’50, i modi taglienti da malavitoso e un vago accento slavo non ispirava, dal canto suo, maggiore simpatia; perciò, già nella caratterizzazione, l’incertezza morale – cardine centrale del testo originale – non mancava. Altrettanto interessante poi era il tratteggio caricaturale della ricca ereditiera Porzia (Elisabetta Mandalari), in stile Barbie, nonché dell’allegra combriccola di amici del Mercante, che nel complesso sembrava suggerire una tacita propensione per l’astioso ebreo, come a dire: guardate quanto è ridicola e insulsa la ragione di tanta rovina. In contrappunto e contrasto alla leggerezza generale, infine, un’atmosfera decadente che affiorava nei fraseggi musicali à la Satie (Arturo Annecchino) e nella larga scena centrale (Carlo de Marino) costituita da un lungo muro screpolato di bronzo e oro, che in quel suo intrigante connubio di Burri e Klein richiama alla mente l’arte-vita come oggetto mercificato e quindi l’allegoria interna del valore dell’oro e della carne. Insomma, tutto molto promettente e azzeccato.

Giunge l’intervallo, la curiosità rimane desta, pochi brontolii, qualche dubbio, ma c’è attesa. Ecco allora che si apre di nuovo il sipario e – sembra di assistere a un altro spettacolo. Silvio Orlando perde il contegno eloquente da usuraio slavo e si trasforma nella copia cinematografica dal farfuglio campano, il celebre monologo del suo personaggio (fra i più belli della produzione shakespeariana) passa quasi inosservato sprofondando in una raffica di scenette comiche da avanspettacolo, che non sono necessariamente malvagie, ma non sembrano per niente in linea con “il prima”: all’improvviso scherzano e ridono tutti un po’ troppo e non si capisce perché. Unico momento di ripresa, la condanna finale di Shylock e quella mortificante costrizione a baciare il crocifisso che – come sottolineava anche ieri Pocosgnich (leggi qui) – ne fa uno dei momenti più notevoli dello spettacolo. Purtroppo, però, arriva tardi. Passata la seconda ora, ormai, il folto pubblico della domenica pomeriggio ha abbassato le antenne e tra un colpo di tosse, una lite fra vicini, un andirivieni al bagno nonché qualche risatina tirata, si è abbandonato a un concerto di stanchezza e delusione. Stentati anche gli applausi.

Eppure le basi per uno spettacolo interessante, intelligente e arguto c’erano tutte; cosa è accaduto? Chi è intervenuto? Come si fa a credere che prima e seconda parte siano firmate dalla stessa persona? Almeno per A.I.-Intelligenza Artificiale lo dissero: “Ci scusiamo ma il regista originale è venuto a mancare” – siamo sicuri che Binasco stia bene?

Teatro Argentina, Roma – 26 ottobre 2014

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