Baz Luhrmann è un cineasta dalla fortissima identità autoriale che ha firmato film caratterizzati dallo straordinario impatto visivo, dalla perfetta cura formale e dalla ricerca creativa e produttiva all’interno del glorioso quanto impegnativo genere del melodramma. Ancora una volta, dopo quel saggio di cinema postmoderno che fu Romeo + Giulietta, Luhrmann si trova a confrontarsi con un caposaldo della letteratura occidentale, Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Capolavoro assoluto di quella che ricordiamo come “la generazione perduta”, racconto mitogenetico sull’Età del Jazz, amara parabola sul sogno americano in un’America cristallizzata nell’illusione di un’eterna adolescenza, è la storia di Jay Gatsby nelle parole di un narratore, Nick Carraway, che è dentro ed è fuori, è attore secondario e testimone chiave, giudice e aedo dell’enigma-Gatsby.
Leonardo Di Caprio regala una sontuosa interpretazione del misterioso anfitrione di feste favolose a cui non partecipa, il ricchissimo fantasma di Long Island, “talk of the town” a New York City negli anni del proibizionismo, leggenda metropolitana che progressivamente si fa carne, si definisce agli occhi di Carraway, il primo spettatore della sua recita. Un uomo “straordinariamente portato alla speranza”, nella fattispecie alla speranza di riconquistare Daisy, amore perduto ed estrema ambizione che lo porta come Icaro a salire così in alto da sentire sulla pelle il calore bruciante del sole.
Luhrmann, come Gatsby, possiede una straordinaria immaginazione, e come per le feste del suo eroe, costruisce col suo cinema un altrove fantastico e irreale, di cui fornisce immaginari piuttosto che immagini. Era irreale la metropoli ipermoderna violenta e kitsch di Romeo + Giulietta; era una variazione fantastica sul tema dell’iconografia parigina il Moulin Rouge; è un ambiente ricostruito tra Australia e il silicio dei calcolatori, estremamente vivido e definito e saturato di colori rumori emozioni il teatro della parabola Gatsby. Impatto visivo però minato e non esaltato dalla scelta del 3D – un linguaggio che attende ancora la seminale venuta di un demiurgo alla Griffith o Welles capace di dargli una grammatica – che in alcuni casi “sporca” le inquadrature, le fa perdere di asse, ne oscura la potenza iconografica.
A livello più propriamente narrativo il regista si conferma fedelissimo e innamorato lettore e regala una versione aderente nello spirito, nello svolgimento, nella cristallina resa della peculiare prosa di Fitzgerald. Anche qui qualcosa a volte sfugge e il film pare girare brevemente a vuoto, in una scena madre inspiegabilmente scarica di tensione; nello sfuggire della portata mitica del protagonista, di cui arriviamo tardi a comprenderne il valore esemplare, l’aura romantica e l’ambiguità del simbolo. Positiva e sorprendente nella puntualità del commento e nella poca invasività, la colonna sonora, fondamentale nel cinema di Luhrmann per la sensibilità pop e la carica straniante che solitamente fornisce ai suoi film, qui rimescolamento di classici del periodo e brani pop riarrangiati su cui si legge l’impronta del produttore esecutivo Shawn Carter, in arte Jay-Z.
Un grande spettacolo, per quanto leggermente imperfetto; un’esperienza visiva a ogni modo notevole; una lettura amorosa e fedele di un classico; un suggerimento che nell’altrove ormai mitico di quegli anni lontani non si possa intravedere un riflesso della nostra contemporaneità: tutto questo è, in sintesi, il Gatsby di Luhrmann.