Il giustiziere della notte
Debolissimo remake del cult degli anni ’70 in cui niente sembra essere al suo posto
Era il 1974 e Il Giustiziere della Notte (Death Wish) di Michael Winner, tratto dal romanzo omonimo di Brian Garfield, con uno stile semplice e un’ideologia ben chiara, esprimeva il pessimismo della società dell’epoca nei confronti delle istituzioni precostituite e la falsità del cosiddetto sogno americano. Il protagonista era Paul Kersey, un architetto di New York che a seguito dell’uccisione della moglie e lo stupro della figlia da parte di tre balordi liberava una natura istintiva, quell’ombra Junghiana che, per incompatibilità con la forma di vita scelta coscientemente, non viene manifestata. Uguale nella forma ma opposta nei movimenti e nella direzione al ruolo sociale dell’architetto, nasceva così la reazionaria figura del Giustiziere metropolitano, angelo della morte, emulato dai cittadini più coraggiosi e ammirato dalla stessa polizia che arriva a chiudere un occhio di fronte ai suoi omicidi. Charles Bronson era l’eroe del film. Un personaggio complesso nel suo dualismo, crudele come vigilante e tragico come padre e marito colpito a morte, che non si voltava mai indietro per vedere ciò che lo perseguitava. Mitologia cinematografica indimenticabile.
Arriva in sala in questi giorni un remake in cui tutte le tematiche politiche dell’originale vengono lasciate ai margini della narrazione, per prediligere solo il lato più violento, ipertrofico e meno impegnato del racconto. Diretto da Eli Roth (Hostel, Cabin Fever), difficile capire come abbia ancora una certa reputazione da parte degli appassionati del cinema di genere dopo una serie di film disastrosi. Interpretato da Bruce Willis, il nuovo Il Giustiziere della Notte è la fantasia masturbatoria di un bianco americano di destra, una lettera d’amore alle pistole, alle torture sui piccoli criminali (molto spesso di colore) e alle esecuzioni extragiudiziali. Un’operazione sostanzialmente inutile, un semplice divertissement con il quale il regista al tempo stesso omaggia e ridicolizzare il Rape & Ravenge e il poliziesco anni ’70.
Il Paul Kensey contemporaneo è un chirurgo di Chicago e la sua trasformazione da “cane di paglia” a Giustiziere non è un sofferto processo degenerativo, ma addirittura una gloriosa rinascita, sottolineata dalla musica degli AcDc, mai così sprecata in un film, che lo porterà ad essere una specie di super eroe con arma da fuoco alla mano e felpa nero con cappuccio, tanto ridicolo da sembrare una parodia dell’Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) di Lo Chiamavano Jeeg Robot, esempio tutto italiano di coraggio e abnegazione in un film di ben altro spessore. Accanto a quintali di uccisioni esagerate, appare quasi come una contraddizione che lo stupro della figlia e l’omicidio della moglie, cioè il motore dell’intera vicenda, avvengano interamente fuori campo. Una scelta molto pudica e drammaturgicamente debole, soprattutto se confrontata con le disturbanti scene di violenza sessuale del film degli anni settanta. Forse si può individuare qualcosa di positivo nell’ironia dei personaggi di contorno interpretati dai caratteristi Vincent D’Onofrio e Dean Norris, ma sono utili alla riuscita del film come lo è applicare un piccolo cerotto sul corpo di un lebbroso.