Il GGG – Il grande gigante gentile – Steven Spielberg
In un presente alternativo al nostro, esiste un gigante alto 26 piedi con collo e gambe lunghe ed esili, naso a forma di uncino, orecchie grandi e basse e una semantica simile a quella di Humpty Dumpty. La sua passione è quella di catturare i sogni come fossero farfalle, in un bosco misterioso nel Paese dei Giganti, vagabondare a notte fonda nelle strade acciottolate di una Londra che sembra quella delle pagina di Dickens e soffiare le sue prede con uno strano trombone su chi ha bisogno di sognare.
La piccola Sophie, una vivace orfana che vive in un istituto, una notte scorge dalla finestra del suo dormitorio un’enorme sagoma in un lungo mantello che con la sua enorme mano la rapisce dal letto. Lei ha paura di essere mangiata dal rapitore ma, giunta nel Paese dei Giganti, scoprirà che si tratta di una creatura pacifica e malinconica: un gigante vegetariano che si nutre solo con “cetrionzoli” dal sapore pessimo, a differenza degli altri suoi simili molto più grossi di lui e affamati di carne umana. Sophie, dopo aver fatto amicizia con il Grande Gigante Gentile (GGG appunto) organizzerà un ingegnoso piano per imprigionare i giganti cattivi che coinvolgerà perfino la Regina d’Inghilterra e l’aviazione militare.
Anche senza l’inevitabile paragone con E.T. – L’extra-terrestre, indimenticabile metafora cinematografica dell’integrazione con il diverso ugualmente diretta e sceneggiata dalla coppia Steven Spielberg e Melissa Mathison, Il GGG si presenta come una leziosa e anonima favola morale che arriva troppo lontano dall’appassionare.
La maggior parte dei difetti del film sono spiegati dal materiale di partenza cioè l’omonimo libro per bambini scritto da Roald Dahl (La Fabbrica di Cioccolato, Matilde), una specie di Finnegans Wake per chi gioca con le bambole di pezza. La comicità del romanzo è principalmente linguistica ed è costruita su malapropismi e onomatopee che perdono di potenza nella traduzione cinematografica. Inoltre la struttura della storia è impossibile da sviluppare nel tradizionale schema a tre atti, tanto da costringere Spielberg e compagnia a dilatare alcuni passaggi narrativi fino alla totale perdita d’interesse.
Fortunatamente il talento di Mark Rylance (Il Ponte delle Spie) ,supportato dalla fantasiosa grafica digitale, diffonde nell’opera un accattivante calore, un’eccitante naivetè che è come un soffio di vita in un film eccessivamente innocuo e privo di reali tensioni.