Foto ©Francesco Pititto

L’incanto sotto la maschera

Il rovescio del fantastico nel 'Furioso' di Lenz

C’è forse più grande follia che tentare di essere chi non si è? Eppure è questo che fanno gli attori: indossano una maschera e d’improvviso diventano un re, un servo, un amante.  E noi tali li crediamo. Ma perché? Le ragioni sono innumerevoli ed esiste una sterminata letteratura teorica che tenta di indagarle; la questione, però, può essere affrontata anche in un’altra maniera, forse più efficace, ribaltando la domanda: chi dovrebbe mai essere l’attore, senza la maschera? Il che vale a dire: quando non tentiamo di essere chi non siamo—chi siamo? Perché è molto facile riconoscere la diversità, ma assai più complicato è capire cosa sia la normalità.

E questo è il primo dubbio ribaltato di fronte cui ci pongono Lenz Fondazione con il loro lungo percorso di ricerca con disabili intellettivi. Ribaltato perché si tratta di un lavoro artistico puro, il loro, non di un progetto sociale. E come tale va accolto. Per entrare nel mondo de Il Furioso, infatti, non è necessaria alcuna premessa, anzi bisogna accantonare piuttosto ogni falso pudore o ipocrisia di circostanza e ritornare a monte, al pregiudizio del pregiudizio, rendersi conto cioè che la diversità è solo una maschera che poniamo sul viso nudo altrui per paura di dover s-coprire il nostro. Normalità e diversità non sono che due facce della stessa discriminazione. L’unica moneta di scambio accettabile dovrebbe essere quella della varietà.

Foto di scena ©Francesco Pititto

E non a caso la varietà – il «Molteplice» – è proprio il carattere che contraddistingue il poema epico cavalleresco di Ariosto.

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto.

È così che si apre l’Orlando Furioso, con due endecasillabi già straripanti, che a malapena riescono a contenere la ricchezza narrativa che si dispiegherà per oltre 38000 versi (la Commedia dantesca ne conta “solo” 14000 circa). Un epos incalzante, alla continua rincorsa di dame, Mori e cavalieri cristiani; ma – dobbiamo pur chiedercelo – cosa significano per noi gli incantesimi, gli amuleti e le tenzoni del Cinquecento? Non rischiamo troppo spesso di applicar loro, di nuovo, la maschera di faceta fantasia letteraria del passato? Anche in questo caso sarà meglio liberarci dall’illusione prospettica per cui noi “moderni” saremmo più evoluti dei nostri antenati, quasi che questi con le loro credenze siano stati più ingenui di quanto non lo appariremo noi, con le nostre, ai posteri. Ancora: maschere, sovrastrutture, illusioni.

Perché è proprio di questo che parla il Furioso—di incanti: di immagini, di paure, di convinzioni che prendono il sopravvento. Finire sulla Luna, d’altronde, è come “volare sul nido del cuculo” o cadere in depressione o isolarsi da tutto e tutti o essere gli unici inquilini di una “fortezza vuota” chiamata autismo. Cambiano i modi di raccontarlo, cambiano i nomi, ma la storia è sempre la stessa perché i dubbi degli uomini non cambiano mai.

Ecco, il Furioso di Lenz va ad agire proprio nella tenue crepa del dubbio, allargandola, abitandola, lasciando che il mondo della proiezione mentale e quello della dimensione emotiva vengano a contatto. Gli incanti dell’Ariosto assumeranno, così, una valenza potentemente psicologica.

Foto di scena ©Francesco Pititto

In occasione del ventennale festival Natura Dèi Teatri, Lenz presenta la seconda tappa di questo progetto biennale sull’Orlando Furioso (la prima – Capp. #1 e #2 – era stata al curioso Museo Etnografico Guatelli di Ozzano Taro, nel parmigiano; il progetto prevede ogni volta l’ambientazione e l’interazione con un diverso luogo non teatrale, compreso il riallestimento in esso dei precedenti capitoli).

Ci ritroviamo nell’androne di un ospedale deserto: una dozzina o poco più di sedie in semicerchio; di fronte, a pochi passi, un grande telo semitrasparente su cui campeggiano le videoproiezioni di un’Angelica in tenuta da boxe che corre tra le spighe e le fronde di un paesaggio agreste: la visione però è tutt’altro che rassicurante, lo sfondo sonoro incute timore (musica Andrea Azzali), le riprese sono lievemente rallentate, i colori saturati in un bianco e nero sgranato; sembra di essere precipitati nella «Zona» di Stalker-Сталкер. Con raffinata sensibilità cinematografica, infatti, Francesco Pititto (co-fondatore di Lenz, drammaturgo, “imagoturgo”, curatore video) evoca la stessa straniante inquietudine di Tarkovskij.

L’apparente quiete è minata da un’angosciante tensione sotterranea. Impossibile dire cosa la minacci, ma su Angelica incombe sicuramente un pericolo. Ancora: immagini, apparizioni, fantasmi. Il mondo ci si mostra innocuo eppure noi lo riempiamo dei nostri incubi—le idee.

In questa dimensione sospesa si non-muovono gli attori: mentre le proiezioni non smettono di riscrivere lo spazio, essi si rincorrono al di qua e al di là del velatino in una continua interazione bloccata con questo mondo fluido e perturbante. Orlando in qualche modo ne rappresenta il medium trans-planare, al contrario degli altri infatti egli è l’unico che sembra non rifuggire da tale instabilità, anzi, la accoglie in sè: la sua furia, apparentemente raggelata, si rivela nella totale simbiosi con l’ambiente; egli non scaccia i fantasmi ma fra di essi si confonde, quasi che l’intero carosello del Furioso non fosse che una proiezione caleidoscopica della sua mente.

Sulla scia di una lontanissima (nella forma) eco ronconiana (il quale nel ’69 allestì un rivoluzionario Orlando Furioso itinerante) saremo invitati a trasferirci di capitolo in capitolo tra le stanze del padiglione Rasori: ogni camera un’avventura, ogni avventura una malattia, ogni malattia una illusione.

Ecco, ad esempio, il regno incantato della lasciva maga Alcina, postribolo di sensi, in cui alla canonica lussuria si aggiunge l’avidità insaziabile dell’uomo consumista, in una nenia inarrestabile di imperativi edonistici che sullo sfondo dell’oggettistica asfissiante del Guatelli sembra quasi evocare i versi dei CCCP «Produci Consuma Crepa». È la cara vecchia “puttana” dell’illusione: chiamatela Alcina, chiamatela denaro, chiamatela vanità—fa lo stesso. È una sirena che manda alla deriva: oltre l’allettante superficie c’è solo carne avvizzita.

Foto di scena ©Francesco Pititto

Ecco poi il palazzo di Atlante, luogo di smarrimento, che nella cornice asettica del vecchio padiglione ospedaliero acquista un’ulteriore amplificazione semantica: luci blu, nebbia spessa di ovatta e giacigli di acciaio (installazioni, elementi plastici e regia Maria Federica Maestri, co-fondatrice di Lenz)  è un obitorio dell’identità per questi uomini, che inebetiti dalle illusioni (magiche e proprie) rimasticano nel loro sonno limbico quelle battute che li intrappolano in una forma pre-cadaverica (obbedire cioè alla trama – ma chi è che comanda: dio? Carlo Magno? la loro stessa volontà?), quasi a officiare il contrapasso tragicamente ironico della trappola in cui sono caduti.

Foto di scena ©Francesco Pititto

A chiudere questo quarto capitolo sarà, ancora una volta, Orlando in una variazione del suo monologo iniziale sull’incanto. Al contrario dell’originale ariostesco, difatti, qui il fantastico è spogliato da ogni fascino allettante, si fa ominoso, alienante, traslando l’allegoria cinquecentesca dal segno al sintomo, in una sorta di trasfigurazione spiazzantemente psicologica dell’epos cavalleresco. Così l’inseguimento della donna amata è chiaramente la proiezione di un ideale, sempre irraggiungibile, di felicità; i Mori coloro che si pongono nel mezzo tra noi e i nostri ideali, nemici sì ma anche “risvegliatori”, perché pur riescono a dis-illuderci; gli oggetti magici, a loro volta, rompono le illusioni, ma riattivano al tempo stesso la pericolosa potenza delle idee; e gli incanti sono quelle stesse idee che prendono forma nel reale: perché ogni ideale realizzato è sempre soltanto una delusione.

Foto di scena ©Francesco Pititto

Gli uomini, dunque, desiderano ciò che non hanno, e ciò che hanno lo tengono in spregio—ecco perché indossano maschere. La maschera non aiuta infatti a migliorare la realtà ma solamente a farci vedere ciò che vogliamo vedere. E Lenz proprio qui sembrano condurci, nella fessura che separa la maschera dal viso: e lo fanno con i cavalieri erranti, quali noi tutti siamo: sognatori senza barriera, attori senza teatro, uomini senza certezze. Ricordandoci, inevitabilmente, che l’unica verità, l’unica essenza, l’unica possibile normalità, insomma, ciò che noi siamo davvero è soltanto il nostro tentativo di essere. Tutto il resto non è che incanto.

Ascolto consigliato

Letture consigliate:
• Il Furioso di Lenz.Ludovico Ariosto per attori sensibili, di Matteo Brighenti (Doppiozero)
• Natura Dèi Teatri. Nel segno di Richard Serra, di Adele Cacciagrano (ArtTribune)
• L’Orlando Furioso in fuga nel museo degli utensili, di Giuseppe Distefano (Il Sole 24 Ore)
• Orlando Furioso tra 60 mila oggetti di arte contadina, di Tommaso Chimenti (Il Fatto Quotidiano)

Padiglione Rasori, Ospedale Maggiore, Parma – 28 novembre 2015

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