Il filo rosso di Trasparenze
La V edizione del festival modenese tra miti, limiti e furori
Arte affascinante quella del funambolismo. Sospeso nell’aria, l’uomo rinuncia alla sicurezza del suolo, si espone al vuoto, al rischio, alla caduta. Passi leggeri, i suoi, e precisi, lungo una linea immaginaria in cui si può proseguire con decisione o vacillare, esplorare l’ignoto o rimanere fermi, farcela oppure precipitare: la sintesi perfetta della vita stessa. E così, a sua volta, il pubblico condivide quella precarietà, partecipa attivamente al percorso, ne scorge i dubbi e le certezze, rimane senza fiato di fronte a un cammino solitario diventato improvvisamente corale.
Ed è un mirabile funambolismo – simbolo di questa V edizione di Trasparenze – quello creato da Stefano Tè (direzione artistica) e dal Teatro dei Venti, un equilibrista che si muove su un filo teso dalla semiperiferia del Teatro dei Segni al centro di Modena. Un cammino di spettacoli, performance, laboratori, concerti, incontri. Da mattina a sera, in luoghi non sempre convenzionali ma che necessitano di essere contagiati dall’arte. Specie quando si parla di festival e quindi di festa della condivisione.
Partiamo dagli spettacoli “canonici”, non tanto per approfondirli singolarmente (ne abbiamo già parlato nel corso dell’anno su queste pagine) quanto per rilevarne l’affinità. Siamo davanti a un altro filo, di colore rosso questa volta, che li collega; e non è cosa scontata ritrovarla nelle rassegne della nostra penisola.
Le contraddizioni dell’essere umano e la nostra incoerente quotidianità sembrano essere il collante tra le compagnie che non si sono solo avvicendate su un palco ma hanno dialogato tra loro. La crisi di coppia – colta nel momento della sua più esasperata rassegnazione e flebile riscossa – lega, infatti, DUET.Quanti siamo davvero quando siamo in due? di Dante Antonelli/Collettivo SCHLAB e Lo único que necesita una gran actriz, es una gran obra y las ganas de triunfar della compagnia messicana Vaca 35.
Due giochi al massacro attuati per esorcizzare una solitudine latente, anche e soprattutto quando soli non lo si è. Come giochi al massacro – rivolti questa volta al razzismo – sono Albania casa mia di Aleksandros Memetaj e Acqua di Colonia, prima parte: zibaldino africano della compagnia Frosini/Timpano. Il razzismo e il colonialismo, però, fanno solo da sfondo a due spettacoli che, con una buona dose di ironia tragica, si prepongono di punzecchiare l’essere umano e tutta qull’ignoranza che gli consente di esprimere fermamente un’opinione di fronte ad argomenti delicati e mai realmente assorbiti o approfonditi. Come? Affondando le mani nel luogo comune per smascherarlo definitivamente, in modo da aprire una lucida e necessaria riflessione.
Da un luogo comune all’altro. Questa volta arriviamo allo scetticismo e alla diffidenza di cui il carcere e i suoi ospiti forzati sono intrisi. Stiamo parlando di All’inferno – Furore e Rimorso, esito del laboratorio tenuto da Kronoteatro con i detenuti della Casa Circondariale di Modena. Ispirato al Tieste di Seneca, il lavoro della compagnia ligure apre un discorso diretto e nudo, appunto, su furore e rimorso tra chi è costretto a vivere dietro le sbarre e chi è fuori.
Tommaso Bianco e Maurizio Sguotti – dal limbo all’inferno – compongono e guidano una sorta di processo di avvicinamento tra il pubblico e i detenuti-attori in scena. Al centro del lavoro c’è un bambino/manichino di legno, prima venerato poi brutalmente scomposto e nuovamente ricomposto. Attorno a esso gli attori si mettono a nudo, entrando nel livello più personale e scrivendo a lettere cubitali sul telo alle loro spalle la propria bolgia infernale di riferimento. Ma è proprio quando, sullo stesso telo, viene proiettato il video in cui i protagonisti donano le loro definizioni di rimorso e furore che si crea un corto circuito: il rito diventa dialogo, e il lato umano emerge prepotentemente e inequivocabilmente. Si prende consapevolezza di un’esigenza ignorata, quella del contatto onesto e autentico. Ma per riuscirci sul serio occorrerebbe abbattere un muro ben cementato.
Muri e cemento sono letteralmente frantumati, invece, in Footloose, esito del laboratorio di Anna Gesualdi e Giovanni Trono (TeatrInGestAzione) con i richiedenti asilo del progetto Mare Nostrum. Il titolo richiama esplicitamente il film cult degli anni Ottanta diretto da Herbert Ross, in cui il protagonista è un «camminatore errante» (Kevin Bacon) che a Beaumont diventa vittima designata di una società biecamente cieca e opprimente. Ma alla fine vincerà lui, e il suo grido liberatorio «let’s dance!» suggellerà il trionfo.
Qui invece siamo nel pieno centro di Modena, dove, in una sorta di corteo, dei ragazzi attraversano le strade della città indossando, sotto le proprie scarpe, dei foratini di terracotta che ne limitano i movimenti. Con le loro farfalle strette tra le dita e posate sul volto, giungono fino a Piazza Mazzini, dove danno vita a una danza lenta, controllata, eterea nella sospesione di Fratres di Arvo Pärt. Ma ancora una volta i mattoni ai piedi rappresentano un ostacolo: è giunto il momento di liberarsene. I freni vengono spaccati sull’asfalto e la danza, quella vera, verso la libertà, può finalmente compiersi. Sulle note della celebre canzone della pellicola statunitense si scatena un ballo che coinvolge anche il pubblico presente. I muri sono stati abbattuti, la partecipazione è attiva e sincera. Hanno vinto loro, anche in questo caso.
Incontro e partecipazione attiva, le parole chiave finiscono per tornare sempre utili in questo solido filo sospeso per aria. Questa volta siamo davanti alla stazione ferroviaria, luogo in cui avviene il Blind Date tra la danzatrice Giselda Ranieri e il batterista Igino Luigi Caselgrandi. L’improvvisazione è il cardine di questo incontro in cui le note della batteria prendono vita e forma nel corpo della danzatrice. Ma questo passo a due diventa a tre in un epilogo che coinvolge un ignaro spettatore, guidato e trasportato dai colpi precisi di Caselgrandi e dai movimenti di Ranieri. Ancora una volta si porge la mano a un pubblico che non mostra alcun timore nell’accettarla.
E senza dubbio alcuno ci si lascia facilmente trasportare anche dalle parole di Vittorio Continelli e del suo Discorso sul mito. Nell’intimità di un salotto di un appartamento modenese, l’attore pugliese racconta la storia di Dioniso, dio del vino, dell’estasi, della liberazione dei sensi e, ovviamente, del teatro. E di certo non si può iniziare a parlare di un dio di tal portate senza un calice di vino, nel quale il narratore intona i versi di Il vino di Piero Ciampi: il viaggio, o meglio, l’esplorazione può iniziare. Già, perché Continelli esplora il mito, lo compone tassello dopo tassello, storia dopo storia, in un racconto accorato, appassionato e appassionante, in cui rileva la superbia e la sete di vendetta degli dèi e dona empatia agli umani, le loro vittime predilette.
In questo viaggio dal grande fascino, Continelli rivolge il suo ultimo pensiero al dio evocato con un «non chiamate astemio chi non beve, chiamatelo ateo». Come dargli torto. D’altronde anche Baudelaire ebbe modo di mettere in versi la celebre «enivrez-vous, enivrez-vous sans cesse! De vin, de poésie ou de vertu, à votre guise». E il funambolo di Trasparenze, nel suo lento incedere sul filo, è riuscito ad affondare passi leggeri ma decisi, a evidenziare le grandi contraddizioni e le piccole certezze della vita, e, certamente, a inebriare un’intera città.
Ascolto consigliato
Modena – 12 e 13 maggio 2017