Il cielo stellato (e musicale) di Cristina Renzetti
Intervista alla musicista umbra sul nuovo album 'Dieci Lune'
Abbiamo raggiunto Cristina Renzetti, una cantautrice con alle spalle una lunga e ricca carriera spesa tra Italia e Brasile, per parlare del suo nuovo album Dieci Lune, appena uscito per Libellula. Con lei abbiamo fatto un viaggio transcontinentale tra stili musicali e culture differenti, sempre però con un minimo comune denominatore: la passione per quanto si fa.
In un momento come questo in cui tutti fanno trap o comunque fanno a gara per abbondare i propri dischi di intarsi più o meno importanti di “effetti ed effettacci” computerizzati, tu esci con un disco di jazz “caldo”, umano e concreto: come mai questa scelta “anti-moda”?
La mia unica scelta, se così si può dire, è stata quella di fare un disco sincero, una fotografia senza trucco dei miei brani. Senza ipocrisie, non sarei proprio capace di fare un disco alla moda semplicemente perché le ultime mode musicali le conosco poco e male, se non a volte grazie ai commenti di allievi o amici più informati.
Ma sono molto felice di leggere questi tre aggettivi che usi per descrivere il mio disco, caldo, umano e concreto. Grazie! In effetti mi piaceva l’idea di fare un disco scarno dove le melodie, i testi e la voce senza artificio fossero in primo piano. Il mio precedente disco da solista era completamente diverso: molto arrangiato, pieno di strumenti e colori, molto denso, a volte quasi cerebrale. Era una fase diversa della mia vita. Quello, se vogliamo, era un disco più intellettuale, più maschile; Dieci lune invece per me è il trionfo della dolcezza e della forza femminile.
Hai avuto una lunga carriera tra Italia e Brasile: per quale ragione questi due luoghi geografici così lontani tra di loro?
La mia storia con il Brasile nasce come un colpo di fulmine, quando adolescente ho ascoltato una band di giovani brasiliani, in un busker festival. Era la fine degli anni novanta e tra i miei cd di Jeff Buckley, Nirvana, Bjork e Soundgarden finì questa cassettina-bootleg comprata per strada che per anni ho ascoltato a ripetizione. Era un mondo lontanissimo dal mio universo musicale finora esplorato, non conoscevo il portoghese e non sapevo neanche che nel negozio di musica sotto casa avrei potuto trovare gli album e le versioni originali di quei brani di alcuni illustri sconosciuti: Jobim, de Moraes, Chico Buarque. Poi sempre “per caso” mi sono innamorata di un ragazzo brasiliano e a diciannove anni per la prima volta sono volata in Brasile. E quella volta è stata una vera rivoluzione, il mondo della musica per me si è ribaltato, sono tornata a casa con una valigia piena di cd, ho abbandonato la mia band post-rock e mi sono buttata come una matta nello studio e nell’ascolto di un nuovo universo musicale. Poi più tardi ho vissuto quasi sei anni tra Bologna e Rio De Janeiro, collaborando anche con musicisti e artisti molto importanti della scena carioca come interprete di Mpb (musica popolare brasiliana).
Il Brasile è la mia seconda patria musicale. Credo che la canzone d’autore brasiliana sia un serbatoio di tesori, una grande scuola in termini di ricerca e bellezza melodica, armonica e ritmica, di creatività, di mancanza di confini tra il repertorio popolare e quello colto. L’amore per la musica brasiliana (quella vera, non l’“oba oba” che molti si immaginano e spesso sbeffeggiano) è qualcosa che ti prende e non ti molla più, come sa bene chi ne viene contagiato.
Nel disco ci sono due brani brasiliani che adoro, di Bia Krieger e Ricardo Teté, di cui ho fatto un adattamento in italiano: è il mio modo per portare anche in questo disco “tutto italiano” un pezzo di cuore brasiliano.
Enzo Pietropaoli è stato molto importate durante la registrazione di “Dieci lune”: in che senso?
Dopo aver prodotto o co-prodotto musicalmente i miei precedenti album, avevo ben chiaro che per questo disco volevo una figura di riferimento più esperta, più grande. Ho scelto Enzo per la grande stima e l’affetto che mi lega a lui e perché è un musicista che viene dal jazz ma è estremamente aperto e eclettico. Ho dato a lui i provini dei brani registrati per voce e chitarra e volevo che lo spirito rimanesse intimo e crudo, anche con la formazione allargata. Credo che questa dote di puntare al semplice in senso alto, all’essenziale, sia uno dei tratti fondamentali della maturità artistica. Enzo, con la sua grande esperienza, mi ha aiutato in questo. La semplicità intesa come densità è sempre più un nord per me, una ricchezza da inseguire e continuare a conquistare, con la guida dei nostri maestri.
In un concerto live con quale formazione ti presenterai?
Nei live mi presenterò in quartetto con Federico Casagrande alle chitarre, Francesco Ponticelli al basso e Alessandro Paternesi alla batteria. La formazione si asciugherà ancora di più rispetto al disco che vedeva la presenza fondamentale di un chitarrista meraviglioso come Giancarlo Bianchetti, un mio compagno di avventure musicali di lungo tempo e Fulvio Sigurtà alla tromba.
L’idea è che queste canzoni vengano ripensate, rivissute in ogni live. Le partiture saranno delle linee guida da reinventare creando nuovi spazi e i colori. Penso che in questo modo le canzoni possano crescere e vivere più a lungo. I tre musicisti con cui condividerò il palco sono meravigliosi, jazzisti eclettici estremamente sensibili, sempre al servizio della musica.
Qual è un artista o una band di riferimento per te al momento?
Sono un’ascoltatrice onnivora e amo molto le voci, per deformazione professionale. Se me ne chiedi uno e uno solo, il primo nome che mi viene in mente è quello di Camille. E’ una cantautrice francese che fa un pop raffinato, beve dalla tradizione della chanson e la personalizza; scrive testi che sono un tutt’uno con le melodie, gioca con i suoni delle parole in maniera intelligente e musicale, fa ricerca ma sempre a servizio della canzone. Ritmo, testi intelligenti, voce bambinesca e profonda che si avventura naturalmente anche in sperimentazioni vocali.
Amo tutti dischi di questa artista, dal primo più cantautoriale Le sac des filles fino all’ultimo uscito da pochi mesi dove ritorna su sperimentazioni vocali, loop, elettronica. Il disco però a cui sono più legata é Ilo Veyou: qui secondo me Camille ci ha regalato i suoi temi più belli e ispirati.
Lune, nuvole, relativisti e rondini: c’è una forte componente “aeree” nel tuo disco. Questa cosa è voluta o un semplice caso?
Che bella osservazione! Sicuramente l’elemento aereo, etereo, è presente nel suono, soprattutto per l’uso delle chitarre elettriche che in alcuni brani diventano dei tappeti acustici che sorreggono la voce. I brani più aerei e ariosi in senso stretto sono Nuvole e sole, la traccia di apertura che è una specie di manifesto di intenti in nome della leggerezza e dello stupore e Il tempo dell’attesa, il brano sulla maternità che inizia con una lunga introduzione senza tempo.
Ma questo rimando all’aria, all’etereo come colore del disco sono commenti che stanno ritornando spesso nelle recensioni e nei feedback degli ascoltatori. E per me in parte arrivano sempre come una sorpresa. Mi viene da pensare ora che forse l’aria, la leggerezza, è un po’ la condizione di partenza e l’arrivo di questo disco: lo strato più immediato e quello più profondo. In mezzo però c’è uno strato molto solido e terreno fatto di domande, di riflessioni sulle difficili relazioni tra padri e figli, l’invidia tra due sorelle, la disillusione, il rimpianto e perfino la depressione de La montagna raccontata in forma di favola. In qualche modo, quello strato di terra, di contenuti umani e concreti è stato sublimato piuttosto che enfatizzato, gridato, declamato. È stato cantato in modo leggero. E per rispondere alla tua domanda, non è stato voluto né casuale, deve far parte di quello stato di leggerezza e di grazia non intenzionale che dona la maternità.