Foto di scena ©Manuela Giusto

Iancu. Un paese vuol dire – Fabrizio Saccomanno

Il teatro lo fanno gli attori, il cinema i registi, la tv gli altri.

Queste parole di Marlon Brando non lasciano spazio ad alcun dubbio: il teatro e l’attore sono imprescindibili l’uno all’altro. Il secolo scorso, quello universalmente noto per l’affermazione del teatro di regia, non ha scalfito minimamente questa figura: si è passati dal Grande Attore ottocentesco all’immedesimazione corale; dallo straniamento alla Supermarionetta; dalla biomeccanica alla macchina attoriale: questi e tanti altri movimenti si sono succeduti e incontrati nel corso del prolifico Novecento. Si può avere un grande testo, la migliore scenografia, un regista di calibro, ma se l’attore non è in giornata diventa tutto inutile.

Casomai non foste ancora convinti, citiamo pure Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d:

anche se si toglie al teatro la parola, il costume, la ribalta, le quinte, persino lo stesso edificio teatrale, finché resta l’attore e i suoi movimenti pieni di maestria, il teatro resta teatro.

Questo lo sa benissimo Fabrizio Saccomanno, al quale bastano un monologo, una sedia e una luce puntata su di essa per fare teatro. L’attore resta seduto per tutta la durata dello spettacolo, ma basta una variazione timbrica ed ecco materializzarsi Rosa Parata, la prostituta che ha fatto fortuna durante la Grande Guerra; un inarcamento del sopracciglio e il mutilato di guerra, autentico spauracchio per i bambini, prende vita; un gesto, uno sguardo e appare il bambino di otto anni – il protagonista dello spettacolo – che guarda il mondo dei grandi dall’alto della sua innocenza.

Foto di scena ©Manuela Giusto

A questo «marmocchio» è affidato il compito di sistemare le tessere dei pittoreschi abitanti di un paese salentino alle prese con un evento fuori dall’ordinario. È una domenica di agosto del 1976, e Graziano Mesina, un noto bandito evaso dal carcere di Lecce, viene avvistato nelle campagne limitrofe. Questo, però, è solo il pretesto per raccontare qualcosa di più grande, ossia i riti ancestrali, i luoghi comuni e le abitudini degli abitanti—là, dove «un paese vuol dire non essere soli».

Foto di scena ©Manuela Giusto

Saccomanno recita un testo semplice, ma mai banale, scritto a quattro mani con Francesco Niccolini e fondato sul ritmo e sull’inaspettata armonia di un dialetto, quello salentino, privato della sua consueta cantilena litanica. Tuttavia, ciò che stupisce maggiormente dell’opera è l’impressione che suscita: siamo distanti poco meno di quaranta anni da questo racconto eppure ci sembra di essere catapultati in un’era preistorica. Un mondo – in cui il rapporto umano, nel bene e nel male, era una componente fondamentale – ha lasciato spazio a un altro dove la tecnologia sta irreparabilmente portando all’alienazione; e tutto questo in uno schiocco di dita.

Foto di scena ©Manuela Giusto

Le parole di Cesare Pavese – «Un paese vuol dire non essere mai soli» – sono il leitmotiv di uno spettacolo che nel finale ha una svolta. I tempi stanno cambiando, non c’è più posto per qualcuno nel nuovo mondo, il bianco – «lu iancu» del titolo – si trasforma in un grigiastro che non promette nulla di buono. Forse un paese, quello nuovo, quello moderno, può voler dire anche essere soli.

Dominio Pubblico, Sala Orfeo, Teatro dell’Orologio, Roma – 24 aprile 2015

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