Gabriele Lavia porta in scena al Teatro Argentina I pilastri della società di Ibsen. Il pilastro è Karsten Bernick, dioscuro di provincia, possidente (oggi diremmo imprenditore) e uomo politico, un gigante che irradia senza ombre della sua luce la piccola società gretta e perbenista che si raccoglie nel suo lussuoso salotto. Quando il mare riporta dall’America due parenti ormai quasi dimenticati, un vecchio scandalo relegato alla chiacchiera da ora del thè rivela come tutta la sua vita, la sua posizione, la sua ricchezza siano poggiati su una menzogna.
Lavia come regista gestisce al meglio un cast numeroso e affiatato (ottima tra le altre Federica Di Martino nei panni di Lona), riporta fedelmente il testo e non si discosta dai canoni di una visione tutto sommato classica del teatro di prosa mentre prende il centro della scena con forse eccessiva pompa, da mattatore ottocentesco, nei panni del protagonista, arrogante, calcolatore, egoista dannato del capitale incapace davvero di cambiare, anche di fronte alla possibilità di perdere tutto.
Un dramma di miracolosa attualità, che suscita la fastidiosa complicità di un pubblico che ride compiaciuto della propria banale arguzia nei momenti in cui scorge in filigrana la mesta cronaca di questi mesti anni, ma la cui potenza non si esaurisce in sciocche letture a chiave. I pilastri della società è una parabola cupa, senza vero lieto fine, sul perbenismo borghese, il ritratto di una società cristallizzata nella sua inutilità filistea e nei suoi formalismi vuoti. Si accasciano nell’ambiente viziato del salotto di casa Bernik anche le ventate d’aria fresca che portano gli americani e nel ritorno circolare dal prologo all’epilogo non scorgiamo che il Kitsch di quel «mondo dove la merda è negata e tutti si comportano come se non esistesse» di cui parlava Kundera. «Prima di essere dimenticati, verremo trasformati in Kitsch».