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I fantasmi d’Ismael

Una profusione di immagini ed eco di passato e presente, tutto conglobato negli intrecci spaziotemporali della mente del protagonista

Non è un caso che il Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck compaia per ben tre volte nel dedalo immaginifico di Ismaele. I suoi fantasmi si annidano anche lì, in quel codice cui magari alludeva lo stesso Dédalus nell’epilogo di I miei giorni più belli (Trois souvenirs de ma jeunesse, 2015) , nella destrutturante prospettiva della scuola fiamminga:«1434 e 1437, l’invenzione della prospettiva in occidente, credevano di avere un solo sistema universale, ma in realtà ce n’erano due».

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In I fantasmi d’Ismael (2017) c’è un momento in cui il produttore esecutivo del film che Ismael (Mathieu Amalric) si rifiuta di finire va a trovare l’amico che, smarritosi tra i luoghi e gli oggetti della sua infanzia, a un certo punto gli illustra gli schemi della prospettiva rinascimentale e fiamminga: la prima, perfettamente centrica e rasserenante e l’altra, polimorfa e avvolgente, con tutti i suoi dettagliati stratagemmi d’inclusione. Siamo così assimilati all’intero corpo dell’opera così come Arnaud Desplechin magnetizza l’attenzione dello spettatore, assorbita dalla molteplicità di punti di vista (e fuga) della storia, irriducibile varietà di ciò che siamo di fronte al linguaggio cinematografico. Nello specchio del quadro di van Eyck si riflette l’opera e l’artista, causa esterna e artefice interno, forma e idea: in I fantasmi d’Ismael ci sono tanti microcosmi e tante vite, una profusione di immagini ed eco di passato e presente, il film dentro a un altro film che acquisisce pienezza gradualmente, tutto conglobato negli intrecci spaziotemporali della mente di Ismael. Vertigini, capogiri, turbinii di sensazioni: è l’effetto Desplechin.

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Ma c’è ancora un altro elemento che lega il mistero degli Arnolfini all’apparizione della moglie creduta morta di Ismaele, Carlotta (Marion Cotillard). Anni di studi intorno al dipinto hanno portato i più a credere al significato onirico della vicenda: il confronto con lo specchio produce una serie di apparenti allucinazioni, per cui né il cagnolino che vediamo in primo piano è riflesso né l’incrocio tra le mani dei coniugi, coperto da una macchia nera. È probabile che la donna sia una revenante, un’anima consunta dalle fiamme del Purgatorio, «spirito» – come Carlotta viene definita dal padre – smorzato dalla luce di quelle stesse fiamme e che cerca la redenzione, un’altra possibilità. E non è forse la storia di Ismael e Carlotta? Tutto si trasfigura in uno spazio fittizio nel momento in cui si palesa. Tutto diviene aereo e inconsistente davanti a lei: uno spettro, un altro, forse il più irresoluto dei fantasmi di Ismael in cui però non c’è scorporeizzazione, né la tendenza propria di Oliver Assayas a rendere ancora più fantomatico ciò che è di per sé ombratile. I fantasmi di Ismaele sono delle realtà tattili e carnali, che incombono sulla vita del regista in tutta la loro definizione, acuendone la crisi artistica e identitaria.

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