I classici oltre la rappresentazione
Don Chisciotte e l'Odissea secondo Garbuggino-Ventriglia e Carbone-Broegg
In un tempo evanescente come il nostro, in cui si ha l’impressione di vivere sempre in un eterno presente, i classici rappresentano un baluardo rassicurante contro la perdita di una memoria collettiva, di un passato, di un’appartenenza a una tradizione che il teatro riesce sempre a mantenere viva. Capita a volte però di assistere a delle semplici «rappresentazioni» dei classici, versioni cristallizzate in una forma morta che in realtà si riducono a puri oggetti di contemplazione, perché non ricercano una chiave di lettura ulteriore. Al contrario, altre versioni ultra-contemporanee si accontentano di qualche superficiale trovata accattivante per «attualizzare» il classico, perdendone di vista la tensione originaria.
Poi, c’è un altro tipo di approccio – per fortuna frequente – che attraverso un lavoro di ricerca approfondito esplora quella verità sempre contemporanea del classico per dirci attraverso di essa qualcosa di più su di noi. Questo ci sembra il caso di due spettacoli visti recentemente a Carrozzerie n.o.t, che prendono spunto da due pietre miliari della tradizione occidentale – il Don Chisciotte per In terra in cielo della compagnia Garbuggino-Ventriglia (presentato fuori concorso all’interno dell’ottava edizione di Inventaria) e l’Odissea per Duepenelopeulisse di Pino Carbone e Anna Carla Broegg – per far percorrere loro nuove strade.
Chi è Don Chisciotte? Un pazzo, un idealista ostinato, un poeta che vede altro rispetto alla banalità del quotidiano, un bambino che sogna mondi fantastici? Sono ancora innumerevoli le suggestioni che suscita l’hidalgo immortale creato nel 1605 da Miguel de Cervantes, talmente innamorato della letteratura da diventarne lui stesso un personaggio. Oggi Don Chisciotte sembrerebbe un personaggio fuori moda: chi si permette di vedere altro da quello che c’è? Sono tempi utilitaristici, si è meno idealisti e si guarda più al concreto: lo sguardo è più rivolto verso terra, come quello del pragmatico Sancho Panza, che verso il cielo, come quello del suo padrone sognatore.
Eppure, con In terra in cielo la compagnia Garbuggino-Ventriglia recupera proprio attraverso il Don Chisciotte una dimensione poetica dello stare in scena, concedendosi così il tempo di esplorare una parola alta che niente ha a che vedere con l’attualità o un’attualizzazione del romanzo, i cui riferimenti sono infatti ridotti all’osso per dare più spazio in scena all’uomo nelle sue fragilità, nelle sue domande eterne, nel suo bisogno innato di sentirsi parte di qualcosa di più grande, proprio come è il desiderio di Ronzinante, il ronzino a cui è affidato il toccante monologo di apertura.
Così, questo Don Chisciotte è filtrato dalle poesie di Paul Eluard e si fa le domande di Amleto, un Don Chisciotte il cui spirito pervade entrambi i protagonisti: Silvia Garbuggino, in tenuta da fantino, e Gaetano Ventriglia, giacca di pelle e maglietta con su scritto «panza», che abitano una scena priva di qualsiasi orpello superfluo. Agli innesti poetici di Eluard e monologhi di drammaturgia originale, si alternano quindi le cadute e le risalite di Chisciotte/Garbuggino insieme ai suoi sguardi stralunati sul mondo, la corsa di Ronzinante/Ventriglia, come anche i passi danzati sulle musiche malinconiche composte da Gabrio Baldacci; ed ecco che con poco i due attori riescono a creare un mondo altro di grande intensità e delicatezza che colpisce per lo spessore poetico ed emotivo, a discapito forse di una più solida struttura drammaturgica, che proprio per la sua insita rarefazione a volte fatica a trovare omogeneità. Un aspetto questo, insieme alla durata esigua dello spettacolo, che invita quasi a indagare oltre per sviluppi ulteriori.
Se In terra in cielo tutto sembra suggerire un’atmosfera sospesa e un’azione portata avanti con un filo di voce, in Duepenelopeulisse ogni gesto, parola, movimento, nonché l’approccio attoriale sembrano tendere a un’esplosione di energia. Qui, nello spettacolo scritto da Carbone e Broegg, il punto di riferimento è l’ultimo segmento dell’Odissea, il ritorno di Ulisse a Itaca e il suo incontro con Penelope, che nella tradizione mitica è l’inizio della riconciliazione e per lo spettacolo invece è l’inizio del conflitto.
Così, indagando gli archetipi letterari di Ulisse e Penelope, si andranno a ricercare in quelle figure mitiche gli aspetti più umani della relazione – sia sentimentale che performativa – mettendo in scena l’ incontro-scontro tra un uomo e una donna che si sono amati (altra fonte di ispirazione è l’incontro tra Marina Abramovič e Ulay durante la performance The artist is present al MoMA di New York nel 2010).
Uno di fronte all’altro in abiti nuziali, circondati da un perimetro di plexiglas da cui traboccano palloncini blu, moglie e marito sembrano in realtà due animali in gabbia costretti a un confronto inevitabile. Come colmare la distanza di vent’anni? Impossibile, da qui l’incomunicabilità e la difficoltà a ritrovarsi: ecco perché leggono in scena le parole stesse di Omero – mediatore – che Ulisse (Giandomenico Cupaiolo) utilizza per raccontare le sue prodezze e Penelope (Broegg) per smascherare le sue bugie, oppure ricorrono ai suggerimenti del regista fuori scena che dice loro come pronunciare una battuta o abbracciarsi, o ancora cantano canzoni al microfono passando anche per le arie di Monteverdi ne Il ritorno d’Ulisse in patria.
C’è un sovrapporsi di piani drammaturgici che rende il pubblico attento e consapevole del gioco: ora i due sono attori alle prese con la parte, ora sembrano una coppia qualsiasi in crisi, e poi certo sono i personaggi del mito—ma oltre i loro stessi luoghi comuni. La Penelope di Broegg non è più la donna ombra, è una furiosa, ferita e ribelle; Cupaiolo è invece un Ulisse scaltro, clownesco ma anche insicuro e nevrotico, che racconta il suo viaggio attraverso una fisicità dirompente. La volontà di rovesciare i ruoli tradizionalmente attribuiti a Ulisse e Penelope diventa infine palese nel riavvicinamento fisico finale in cui abiti e generi s’invertono; così, se in quell’amplesso da un lato si vuole attribuire a Penelope un potere di rivalsa su un mito assai maschilista, dall’altro proprio questa soluzione sembra stridere con la complessità vista in precedenza.
Attraversando poetiche e stili del tutto diversi, In terra in cielo e Duepenelopeulisse sono due esempi di teatro che, senza presunzioni o timori reverenziali, non si accontentano semplicemente di rappresentare un classico ma tentano di innervarlo di nuove questioni e urgenze contemporanee, attraverso quell’incontro fra la tradizione e il presente che espone sì, al rischio, ma anche alla ricerca.
Ascolto consigliato
Carrozzerie n.o.t, 3 e 11 maggio 2018
IN TERRA IN CIELO
di e con Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia
musiche composte ed eseguite da Gabrio Baldacci
produzione Compagnia Garbuggino-Ventriglia, Armunia
DUEPENELOPEULISSE
di Pino Carbone e Anna Carla Broegg
con Giandomenico Cupaiuolo, Anna Carla Broegg
musiche Camera
soggetti grafico-scultorei Stefania Agostiniano
foto Mena Rota
assistente alla regia Ilaria Quintas
regia Pino Carbone
produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro
in collaborazione con AreaBroCa, l’Asilo, Chiaradanz