Hotel Belvedere – Paolo Magelli

Hotel Belvedere – Paolo Magelli

Come appaiono le cose da fuori? All’indomani della rielezione di un pacifista come Netanyahu, delle affermazioni di Putin sull’uso dell’atomica in Crimea, della caduta di Babilonia per mano dell’Isis, o di fronte alle nuovi stragi in Birmania, agli stupri in India, alle sevizie in Korea del Nord, alle sortite di Boko Haram, cosa dovremmo dedurre? Che ne è stato di quel progresso tanto ostentato dalle cosiddette democrazie occidentali? Quale lezione avremmo mai imparato dagli atroci errori del Novecento? Basta portarlo fuori casa, il sangue, per lavarsi le mani? Un bel vedere, davvero un bel vedere.

Ed è da questa amara consapevolezza, da questo disastro, da questa incapacità cronica a evolvere che si deve partire per affrontare lo spettacolo di Paolo Magelli. Ödön von Horváth scrisse Zur schönen Aussicht («alla bella vista», tipica insegna da locanda alpina) circa un secolo fa, ai tempi di Weimar, quando il continente doveva fare i conti con i morti, i debiti e i rimorsi della Grande Guerra. La pensione bavarese dove è ambientato il dramma è un piccolo hotel semi-abbandonato, abitato soltanto da una baronessa lasciva e dai suoi tre amanti: direttore, cameriere e autista dell’albergo. Un non-luogo dove echeggiano vecchi rimpianti, liti, urla, attraversato da ombre di miseria: il signor fratello barone che ha perso tutto al gioco, il conservatore piccoloborghese (Müller in tedesco sta pur sempre per «mugnaio») sadicamente vizioso che reclama i suoi crediti, o ancora una giovane innamorata prima “ingombrante madre” da abbandonare e poi, scoperta la ricca fortuna da lei ereditata, d’improvviso da tutti desiderata.

Come in una vecchia pièce tardo-naturalista, dunque, un po’ in stile primo Strindberg, il rito della sconsolata decadenza si consuma secondo cliché. Eppure a un tratto tutto in scena comincia a esplodere nell’eccesso: calici su calici di champagne, il vomito a terra, i petali strappati, i cubetti di ghiaccio sputati e calciati dappertutto. Il palcoscenico diventa una discarica di vizi che come un’opera di Spoerri scolpisce nella rovina degli oggetti quotidiani la mappa di una desolante situazione socio-politica.

Quell’Hotel Belvedere infatti è proprio l’Europa dei tempi di Horváth. Aussehen (da cui «aussicht» deriva), d’altronde, in tedesco è «apparire», un vedere da fuori e cogliere meglio l’interno, un intuire il «fine» – nonché la possibile fine – di qualcosa. Così, in quella aristocrazia ormai spiantata e in quella piccola borghesia all’eterna rincorsa di godimenti effimeri, il drammaturgo austriaco intuisce e prevede non semplicemente le sorti dei populismi nazionalistici, di quella seconda guerra mondiale che non vivrà mai (morirà neanche quarantenne nel ’38) ma perfino dei loro strascichi fino ai nostri tempi: a ricordare a noi spettatori del terzo millennio che non molto è cambiato.

Come era tipico dell’area austroungarica (non dimentichiamoci che siamo negli stessi anni di Kafka, Hašek o Roth), tuttavia, il dramma non manca di umor nero e così l’ampollosità un po’ gridata della recitazione (Compagnia Stabile del Metastasio) del primo atto recupera di mordente nel secondo, catturando l’attenzione in un banchetto di squisito e dissacrante cinismo non distante dagli irresistibili fasti de Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante di Greenaway (splendidamente ritratto in particolar modo dal veterano Marcello Bartoli e dal “villaggesco” Mauro Malinverno).

Porte alte e scure che sobillano fra le pareti, grate nascoste da cui serpeggiano segreti, cascate di ghiaccio a colpire e lenire al contempo il dolore (scene Lorenzo Banci), Hotel Belvedere è un’aspra e spietata lettura della storia che, nonostante alcune ridondanze interpretative, non risente del peso del tempo, e ci mostra senza renitenze la crudeltà e la ridicolaggine del potere, quella stessa balordaggine che rende primi ministri e poveri diavoli tutti uguali nella loro miseria morale.

Teatro Vascello, Roma – 17 marzo 2015

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