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Guai ai baci – Ottavia Monicelli

“Non ha mai detto l’unica cosa di cui avrei avuto davvero bisogno, Ti voglio bene”.

Ottavia – nome romano suggerito dalla Suso (Cecchi D’Amico) e annunciato sulla Gamba di legno di Sergio Leone, la barca del regista su cui la mamma Antonella ha rivelato dell’attesa di quella femmina che Mario tanto aveva bramato per dare una sorella a Martina – con una franchezza “alla Monicelli”, d’altronde lei è “una Monicelli”, racconta suo padre in ciascuno dei suoi profili, soprattutto quello del “non-padre”.

La scrittura, affatto romanzata, neppure diaristica, piuttosto tipica di una narrazione verbale – il libro si lascia leggere, forse lo chiede addirittura, anche in un paio d’ore d’ininterrotto “ascolto” di quella prima persona femminile – prende di petto anche l’amante monicelliano più fedele, quello che lo riconosce con facilità nell’“uomo calmissimo e senza legami apparenti”, perché così lui si restituiva nelle dichiarazioni pubbliche, nel racconto di sé. Il lettore è colto da spiazzamento, quasi incredulo per l’apparente assenza di quell’inclinazione istintiva che s’immagina essere parte naturale dello spirito genitoriale.

Però va detto anche che Ottavia scrive così di suo nonno, il padre di Mario: “Il 25 maggio 1946, Tomaso si sparò un colpo in bocca […] Mio padre era a casa, sentì lo sparo, corse a vedere e trovò il corpo esanime. E’ stato così che ha conosciuto per la prima volta il dolore”. E’ da questo punto in poi che il confronto tra chi legge e Mario-il padre si ammorbidisce, trovando empatia con quell’attenuante che Ottavia snocciola, anche sotto forma di pietas, verso quell’uomo che senza ombra di dubbio ha davvero amato.

Nessuna distanza ricorre con un canonico testo sul cinema, questo è un libro di cinema non solo perché esplica, e non come elenco della spesa, sublimi nomi del cinema italiano, dalla Suso, appunto, a Ettore Scola, ma perché racconta dell’animo umano, cuore del cinema stesso di Monicelli: “per muoversi preferiva l’autobus: andava girando ovunque con mezzi pubblici” perché era così che guardava in faccia le storie e poi le scriveva, portando, non raramente, i personaggi del quotidiano, incontrati nella ricorrenza di ogni giorno, sullo schermo. E poi il cinema è un universo che, se ne fai parte, diventa il tuo mondo e così non poteva essere diversamente nemmeno per Mario Monicelli: “il cinema, il suo ego, la sua vita venivano sempre prima del resto” (anche di sua figlia).

Ottavia Monicelli racconta con disarmante sincerità il proprio disagio passato, quello che ancora paventa nel presente e da cui probabilmente non sarà liberata: l’anelito verso la ricerca di quei baci, abortiti, è una ferita aperta, imperdonabile – “Anche oggi che sono madre…continuo a condannare mio padre per non essere riuscito a darmi neppure un quarto dell’affetto che ha dato a Rosa e a Martina. […] Io ero la figlia di serie B?” – che però non l’ha fatta cedere nella perdita di onestà che lascia intaccato il valore dell’artista Monicelli, anzi regista perché lui era questo che si sentiva di essere. Non scivola in umane derive dettate dalla rabbia e dal dolore: le va riconosciuta una capacità di esercizio della sensibilità e del rispetto dei singoli consessi.

“… lui era così perché aveva una grande paura del dolore, anche di quello degli altri”.

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