concerto

Give It A Name @ Alcatraz (MI)

Come da copione, lo stesso è accaduto sabato 17 aprile all'Alcatraz di Milano, tappa italiana del Give It A Name, il festival itinerante nato in Inghilterra e poi esportato in altri paesi europei. Sette sono state le band a succedersi sul palco, sette le ore di musica dal vivo pressoché non-stop, per quella che si è rivelata essere una vera e propria maratona di musica rock.

I primi a salire sul palco sono stati gli Andead, la band di Andrea Rock, volto storico di Rock TV. Un punk-rock orecchiabile ha fatto da colonna sonora ad un'esibizione abbastanza coinvolgente, forte anche di una ben riuscita cover di “Olympia” dei Rancid.

Non si può dire altrimenti del gruppo successivo, i Friday Night Boys: la tipica emo band da festa scolastica di fine anno, con un cantante dalla classica voce nasale prepuberale e un batterista che forse non ha capito che saper suonare non significa picchiare lo strumento quanto più forte possibile, ma senza un criterio. Insomma: insignificanti, se non addirittura irritanti.

A seguire, i The Swellers, i quali hanno proposto un punk-rock dalle tendenze hardcore che ricordava tantissimo band come i No Use For A Name. Bravi, ma non eccezionali: perdevano un po' per la voce, forse troppo limpida e melodica per il genere suonato, ma soprattutto per l'impersonalità dello stile.

Davvero molto graditi, invece, i Madina Lake, quartetto alternative rock di Chicago parecchio dotato tecnicamente e scenicamente. È stata l’unica band a corredare l'esibizione con piccoli ma significativi accorgimenti scenografici, come l'uso di stelle filanti e palloncini enormi riempiti di coriandoli. Una particolare nota di merito va al bassista, Matthew Leone: senza nulla togliere agli altri componenti del gruppo, si è dimostrato essere il più capace e grintoso sul palco, dando prova di essere un valente musicista.

Quinta band, gli Story Of The Year, che hanno intrattenuto il pubblico con un'oretta di musica screamo ben eseguita ed interpretata. Grande è stato il coinvolgimento degli spettatori, non tanto da parte del frontman Dan Marsala, quanto del bassista, Adam Russell, e del primo chitarrista, Ryan Phillips, che hanno divertito con piccoli bagni di folla e corde degli strumenti lasciate suonare ad alcuni ragazzi in prima fila.

Finita la loro performance si è infine entrati nel vivo del festival, con l’esibizione del primo dei due gruppi principali della giornata: i Sum41. Erano ormai sette anni che la band canadese mancava dai palchi italiani, e oltretutto ha rischiato di non riuscire ad arrivare a Milano in tempo per il concerto. Ce l'ha fatta soltanto dopo un’odissea di 33 ore, fatta di voli cancellati (a causa del vulcano islandese che per qualche giorno ha paralizzato gli aeroporti europei) e un viaggio senza biglietto su un treno Roma-Milano tutto esaurito: insomma, sono arrivati all’Alcatraz una decina di minuti prima del loro turno sul palco. Lo spettacolo non ha tuttavia risentito di questo tour de force: i Sum41 si sono dimostrati all'altezza delle aspettative del loro pubblico e hanno suonato i loro più grandi successi con una forte carica. Hanno proposto brani come “Still Waiting”, “Fat Lip”, “Hell Song” e “We’re All To Blame”, e concluso con la celebre, seppur mai pubblicata come singolo, “Pain For Pleasure”, cantata dal batterista Steve Jocz, per l'occasione sostituito allo strumento dal frontman Deryck Whibley. Un commento a parte va fatto sul nuovo primo chitarrista della band, Tom Thacker, già leader dei GOB: per quanto sia impossibile riempire il vuoto tecnico e scenico lasciato da Dave Baksh, lo storico membro dei Sum41 che nel 2006 ha deciso di abbandonare il gruppo, c'è da riconoscerne le buone capacità, emerse non soltanto alla chitarra ma anche alla voce, durante la cover di “Paint It Black” dei Rolling Stones.

Ultimo gruppo ad esibirsi: gli AFI, headliner principali della serata, per quanto effettivamente meno conosciuti in Italia rispetto al resto del mondo. Come la band precedente, anche loro hanno proposto i loro brani più noti, da “Girl’s Not Grey” a “Miss Murder”, intervallati da pezzi estratti dal nuovo album “Crash Love”, tra cui i singoli “Medicate” e “Beautiful Thieves”. Questo non significa che la scaletta fosse scontata, tutt’altro: la band ha infatti stupito il suo pubblico proponendo “Perfect Fit”, brano estratto dall'album del 1996 “Very Proud Of Ya”, e “On The Arrow”, b-side del più recente “Decemberunderground”. Al di là dei brani suonati, oltre alle impeccabili capacità tecniche agli AFI va riconosciuta una grandissima presenza scenica, non soltanto del frontman Davey Havok ma dell'intera band. La grinta mostrata per tutta la durata della performance è stata tale da riuscire a compensare la pressoché totale mancanza di interazione del gruppo con il pubblico, unico rimprovero da muover loro.

Un rimprovero più generale va invece al team organizzativo del Give It A Name, che ha ridotto all'osso il tempo concesso alle diverse performance: non solo le meno note, come ad esempio gli Andead, che sono stati costretti a tagliare la scaletta, ma soprattutto i due headliner, le cui esibizioni sono state limitate ad una durata di un'oretta scarsa. Ad eccezione di questo, è stata una giornata di grande musica, ovviamente tra i suoi alti e bassi, ma sicuramente di una qualità non sempre riscontrabile nei grandi festival.

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