Ultima rappresentazione dell’Antologia che il Teatro Vascello dedica all’opera recente (quattro spettacoli prodotti nel corso degli anni Duemila) di Flavia Mastrella e Antonio Rezza, Fratto X è opera inscindibile dalla performance di Rezza, un’incarnazione più che una messa in scena. Sul palco il dispositivo scenografico approntato dalla Mastrella è elementare. Si riduce a un impianto luci che si incrociano e cambiano temperatura e a due nastri di tessuto bianco che tirati e orientati secondo la necessità compongono la X del titolo.
X come incognita, come termine ignoto dell’equazione, scatola da riempire. Ma anche bersaglio al cui centro prendono forma le dramatis personae partorite dalla possessione di Rezza, dalla sua debordante carica d’interprete, così proteiforme ed eccessiva da necessitare di altri corpi da abitare. Corpi come quello dell’ottimo Ivan Bellavista, umana marionetta di precisissima duttilità, ma anche quello di un palloncino portato in giro da una macchina telecomandata e, ultima sfida portata alle strutture della rappresentazione teatrale, quelli degli stessi spettatori.
Cos’è Fratto X. È un’umana e crudele carrellata di ossessioni, di tragedie della (dis)integrazione, di dolori metafisici, di verità adamantine luccicanti nel fondo di un pozzo nero. Come è fatto Fratto X. È una performance a episodi in cui Rezza non interpreta ma è personaggi marginali, ossessi, franti (o fratti), psicotici, prigionieri di se stessi come quei mistici orientali che disegnano un cerchio nella sabbia e vi cadono in trance, potendone uscire solo una volta rotta la circonferenza. È un caleidoscopio in cui il senso scivola naturalmente da un episodio all’altro e in cui tutto si tiene, tutto appare in fondo giustificato, tutta la crudeltà verbale, tutta la pressione a cui si sottopone il corpo comico di Rezza crea un pathos necessario e catartico. Come funziona Fratto X. Fratto X fa ridere. È comico in senso quasi leopardiano, suscita un rider alto, quel ridere dei nostri mali che è «l’unico profitto che se ne possa cavare e l’unico rimedio che vi si trovi», poiché «la disperazione ha sempre sulla bocca un sorriso».
Rezza nella sua inestimabile potenza di esilarante incarnatore di tragedie porta avanti una battaglia poetica e necessaria, è un Panurge, un bambino che dice che il re è nudo, un romanzo scritto in carne e nervi e occhi strabuzzati; uno specchio deformante attraverso cui intravediamo il vero mostruoso volto del nostro tempo.