Dare un titolo a un’opera, soprattutto d’esordio, non è cosa facile, anche se spesso capita che quel titolo compaia in testa ancora prima di concludere la scrittura. Il titolo dà peso all’opera, te la descrive e te la presenta. Un genitore con il proprio figlio dovrà rischiare un pelo di più, non conoscendo la personalità del nascituro le sue speranze sono che i propri gusti in fatto di nomi corrispondano almeno in parte al carattere che andrà sviluppandosi. Ma un autore possiede tutte le facoltà per dare il nome opportuno alla propria opera, e la pretenziosità di un titolo è cosa noiosa. Per fortuna in questo caso ci troviamo di fronte a un lavoro che è anch’esso pretenzioso e quindi possiamo evitare di criticare l’autore per mancanza di coerenza.
Franny, il titolo di questo film, è il nome del protagonista: un filantropo Richard Gere che non tanto della sua ricchezza o della sua generosità benefica fa lo scopo della sua vita, quanto della sua invadenza e petulanza. Franny ha gusto spiccato nel vestire, nella sua vita possiede progetti e passioni specifiche, vive in case ben arredate, ama fare dell’umorismo ma a quanto pare tutto ciò non è sufficiente a far sì che possieda una vita propria. Così s’attacca e si lega alla sventurata coppia di amici e alla loro figlia (Dakota Fanning), i quali ne pagheranno le conseguenze scatenando la dinamica di eventi che giustificherebbe l'ora e mezza di film.
Franny, come accennato sopra, non è solo il nome del protagonista ma il titolo del film d'esordio (e solo uno ne capita nella vita - soprattutto con un budget come questo) di Andrew Renzi. Di titoli con il nome proprio ne contiamo diversi nella storia del cinema classico e contemporaneo. Non sempre, ma il più delle volte trattasi di drammi memorabili o di genere orrorifico. Implicito nel dare il nome proprio del protagonista sta il fatto che egli stesso ha carica carismatica e personalità in grado di creare empatia e catarsi nella vicenda e solo raramente questi film si pongono alla base di nuove cinematografie autoriali. Alcuni esempi sono: Fanny e Alexander, Harold e Maude, Rocky, Juno, Lolita, Mary Poppins, Alice, Io e Annie, Ninotchka, Caroline, Withnail and I, Bad Boy Bubby e tanti altri.
Il buon Richard Gere, nonostante non possieda una quantità di espressioni che superi le tre unità, si fa carico del personaggio, del suo trauma e del suo ruolo nella vicenda, complice anche una grande esperienza, e lo porta alla sua massima efficienza sulla scena. Nonostante questo, il ruolo viene purtroppo inficiato da una regia che possiede troppo autocompiacimento, caricando la drammaticità della scena con lente carrellate, lunghe inquadrature simmetriche, flashback spezzati ad oltranza e una musica ossessiva e con un carico di pathos che toglie allo spettatore il piacere e la spontaneità di empatizzare con le situazioni e i personaggi. Impone quindi il dramma, suggerisce l'emotività con soluzioni ingenue e ricche di cliché stilistici mettendo l’imbarazzo negli occhi di guarda.
Il personaggio di Franny non possiede quella simpatia e non vive l’avventura che giustificherebbe la centralità di un’opera dedicata. La sua unicità sta proprio nell’essere invadente, al limite di un comportamento da stalker e provoca un senso di fastidio che percorre tutta la pellicola fino ai titoli di coda che alterneranno più volte le maestranze con il suo primo piano mentre si fa la barba.
Con uno sguardo più approfondito non sfugge l’intenzione del regista né la morale sulla ciclicità della vita, ma questo è purtroppo poco per non considerarla un’occasione in parte mancata. Un film con troppa costruzione ma buon mestiere.