Francofonia – Aleksandr Sokurov
Insieme a pochi altri registi, per esempio Peter Greenaway, Sokurov è spesso considerato (anche) prezioso sinonimo di pittura, grazie alla rielaborazione personale di citazioni di opere d’arte (si pensi alle atmosfere dei quadri di Böcklin in Moloch) e all’impronta meticolosamente visionaria e colta delle sue inquadrature. Ma in Francofonia, pellicola con cui il regista torna in concorso a Venezia dopo aver vinto il Leone d’oro nel 2011 con Faust, la pittura entra non tanto o non solo tramite immagini che richiamano magistralmente lavori di altri artisti, bensì direttamente attraverso i suoi “oggetti tangibili” (i quadri – ma anche le sculture) e i suoi luoghi per eccellenza (il museo – il Louvre, in questo caso).
Nel 1940 a Parigi la vita di Jacques Jaudard (Louis-Do de Lencquesaing), direttore del Louvre, si incrocia con quella del gerarca nazista Conte Wolff-Metternich (Benjamin Uzterath), responsabile dei beni artistici durante l’occupazione tedesca della Francia, che, nonostante la sua posizione e fedeltà a Hitler, ha salvato molte opere del “Museo dei musei” dalla furia distruttrice del nazismo.
Sokurov, però, per non venire meno alla sua indole sperimentale, non si limita a narrare “semplicemente” questa storia: Francofonia è un vortice quieto e riflessivo, appartato e indomabile, oggetto che, come molte altre sue pellicole, è un puzzle di mondi lontani ma potenti, un aldilà cinematografico che, oltre alle sequenze dei due protagonisti che cercano di prendersi cura delle opere del museo, comprende fotografie e filmati di Parigi durante la Seconda guerra mondiale, immagini di Tolstoj e Cechov (ai quali, con divertita bizzarria, Sokurov rivolge la parola), fantasmi che si aggirano fra le sale del Louvre, qualche ciak del film, e fugaci riprese dello stesso regista in una stanza (probabilmente) del suo appartamento. Il tutto unito e orchestrato dalla sua profonda voce fuori campo, che si culla nella pacatezza e severità dei propri pensieri.
Francofonia è infatti una riflessione sul delicatissimo rapporto fra arte e potere, una dedica maestosa al Louvre come baluardo della civiltà anche in periodi eticamente deserti, un trattato poetico sull’importanza di preservare l’eternità irrinunciabile e fragilissima dell’arte, sulla convinzione secondo la quale concepire Parigi o l’Arte senza il “Museo dei Musei” sarebbe come voler progettare un corpo privo di cuore e pretendere che funzioni. In più, grazie ai movimenti di macchina che si avvicinano con signorile lentezza ad alcuni capolavori (la Gioconda, La zattera della Medusa di Géricault) esplorandone l’interminabile vita interiore, Sokurov fa percepire la sensazione del processo di immersione dentro l’opera d’arte unita alla “contemplazione ragionata” sui suoi dettagli e sulla sua storia.
Ma, forse, ad assumersi il dovere di incantare davvero in questo calmo turbine è la visionarietà dell’uso della luce “tipica” di molti suoi film, densa e autunnale, piena di cura, che, grazie al contributo del direttore della fotografia Delbonnel, raggiunge il suo apice quando in alcuni campi lunghi avvolge l’edificio del Louvre, i tetti e le strade di Parigi in una sottilissima nube diffusa di un giallo vaporoso, come se si trovasse lì per proteggere le inquadrature dagli attacchi esterni della realtà più piatta e priva di spirito. E se Sokurov si chiede che cosa sarebbe stata la cultura senza l’arte del ritratto, noi ci domandiamo che fine avrebbero fatto gli occhi dello spettatore senza il suo cinema.