Non per fare i faciloni ma la questione, verrebbe quasi da dire la “vexata quaestio”, è sempre quella lì: pittura toscana vs pittura veneta. Da un lato, l'angolo rosso, i toscani, con la loro linea netta, la prospettiva matematica e la luce, anzi il lucore che tutto avvolge. Dall'altro angolo, quello blu, i veneti, con la linea morbida, le visioni enigmatiche e quella polverina rosa che tutt'ammanta. Beh, la medesima questione si ripresenta anche per Iocampo, soprattutto nell'ultimo album Flores, uscito per URTOVOX rec. e The Prisoner rec.
Intendiamoci subito, “Flores” è un gran disco, dove il cantautore veneto (e di dove sennò?!) cesella un suono molto elegante, investendo su un approccio intimo e personale che fa di ogni canzone una sorta di tessera di mosaico, meglio di goccia, per capire/carpire la sua personalità. Ma come lo fa? Lo fa nella maniera più veneta, intesa come scuola pittorica, possibile, ovvero utilizzando colori grassi e saturi, immergendo i testi in una polverina rosea che, solo in apparenza, li rende leggeri e soffici come le carni di una Venere.
La decima traccia dell'album, Due due due è una specie di bluesettino in punta di piedi, molto delicato ma tremendamente efficace anche nella scelta dei vocaboli. Ma mai un emiliano, financo un pesarese per non parlare di un romano, avrebbe interpretato un blues in quel modo. Iacampo lo affronta infatti come un tramonto del Veneto più profondo: allarga i colori, li attenua e li fonde col paesaggio. Non c'è la luce squarciante dei toscani, qui nella terra veneta, almeno prima di Porto Marghera e delle bombe degli americani, era tutto rosa.
E questa andatura delicata (che però non trascolora mai nell'acquerello perché è totalmente assente il flaunerismo, anche ipotetico) è ribadita nel violoncello di Biancavela, nello splendido utilizzo di una voce finalmente consapevole e, anche didatticamente, ineccepibile di Ogni giorno ad ogni ora e pure, nelle canzoni quasi gemelle di Come una roccia e di Come una goccia. Flores è l'album giusto per un giro in bicicletta in mezzo alla natura, ma non quella selvaggia, bensì quella un po' inquietante e riconoscibile del fiume, del ponte o del laghetto sotto casa. Proprio come, neppure a farlo apposta, ne La tempesta di Giorgione.