In molte occasioni il cinema ha parlato del flebile e malleabilissimo spazio che divide uomo e animalità. Ma Figlio di nessuno, esordio del serbo Rumovic, pur mettendo a confronto essere umano e pulsioni animali, va in una direzione diversa, più vicina, casomai, al Ragazzo selvaggio di Truffaut. Bosnia, 1988, periodo in cui i nazionalismi avrebbero portato alla guerra nel 1992. Durante un’escursione di caccia nella foresta un gruppo di uomini trova un bambino cresciuto tra i lupi che si comporta come un vero e proprio animale selvaggio: non sa parlare, grugnisce, si muove a quattro zampe, è solo fatto di istinti, spesso violenti. La strana e misteriosa creatura viene dunque portata presso un istituto di Belgrado, dove studiano e vivono bambini orfani. Con pazienza e rigore i responsabili della scuola si pongono l’obiettivo di trasformare questo essere timoroso e ribelle in un uomo “normale”, cercando anche di farlo integrare nell’ambiente.
Alcune inquadrature indicano il legame (quasi) indissolubile fra il “selvaggio” protagonista e la natura, come quando il piccolo viene introdotto a forza nell’auto insieme al cadavere di un lupo cacciato; o nel momento in cui, durante una ripresa dall’alto, il suo corpo dalla pelle sporca si confonde e si mimetizza con la terra mista a foglie del bosco mentre cerca di ribellarsi agli uomini che lo hanno appena scovato.
Con un approccio discreto, pudico ma sensibile e incisivo, il film segue le “prove di umanizzazione” a cui il bambino viene sottoposto, dall'uso degli abiti fino all'acquisizione della parola. Questi tentativi di far uscire giorno dopo giorno il ragazzino dal suo covo di istinti gli apriranno un nuovo scenario di emozioni tragicamente contrastate, rese esplicite da alcune sue soggettive “spaurite” che rivelano tutto il suo profondissimo timore verso gli altri. Altrettanto scioccante è il suo primo contatto con la città: qui la sua incredulità sconvolta viene riassunta da un bel movimento a trecentosessanta gradi della macchina da presa, in cui il suo volto in primo piano è come pronto a sparire al cospetto dell’indomabile spettacolo industriale di luci, suoni e automobili.
Una confusione accelerata anche dalle circostanze non particolarmente fortunate che accompagnano il suo progressivo ingresso nel mondo degli umani: con una sola eccezione che si rivelerà poi deludente, i compagni non gli sono troppo solidali, regalandogli al massimo un po’ di attenzione quando desiderano prendere bonariamente in giro i suoi metodi “selvaggi”; occasioni, queste, in cui la loro curiosità infantile diventa un dito puntato contro il diverso che spalanca pregiudizi.
Senza manicheismi o forzature, il film sembra perciò stare dalla parte del protagonista, facendo forse intendere che sarebbe stato preferibile lasciare il “ragazzo selvaggio” nella natura che gli apparteneva e a cui era abituato, sperduto e al sicuro nel mondo vegetale e animale, i cui istinti e regole, per quanto spesso magari feroci, non illudono e deludono.