Ritratto doppio di rivoluzionaria
Le donne ribelli di Animanera e Bonaiuto
A volte il falso mito del progresso ci porta a credere che, nei secoli, la natura degli uomini cambi, quasi che bastasse una trasformazione degli usi e costumi per elevare la coscienza morale.
È per questo, allora, che diventa illuminante interrogare il passato, perché ci offre la possibilità di confrontarci con chi, semplicemente in un altro contesto, ha vissuto i nostri stessi dubbi.
Sono come voi. È così che comincia Figli senza volto di Animanera. Natascia Curci solleva una super8 quasi fosse un’arma, la pellicola frulla come un colpo di mitraglia, lo sguardo apparentemente innocente è pronto a bersagliare l’intera società. Sotto le mentite spoglie di una donna per bene infatti si cela una brigatista clandestina, che si confonde nella società pigra dei consumi per colpirla quando meno se lo aspetta. Ma non ci sono solo gli anni ’70, qui a parlare è una donna e la sua doppia rivoluzione, pubblica e privata, politica in senso radicale, perché tenta la propria rivolta contro una polis che mercifica tutto: lavoratori e donne, entrambi “oggetti” della morbosa virilità dominante.
Questa anticamera dell’emancipazione è brillantemente scolpita (scene V.Tescari, luci B.Sordi, video S.Belkhir, M.Burzoni, S.Stefani) all’interno di un’alta parete verticale: oltre il velo dell’apparenza, su cui si impigliano pregiudizi e condizionamenti culturali (blob di videoproiezioni da Studio Uno a Carosello fino al trash televisivo odierno, quasi a dirci È per questo che ci si è uccisi a vicenda?), emerge infatti l’intimità, drammatica eppure semplice, di chi finisce per sentirsi comunque sconfitto.
Essenziale, misurato, delicato, Figli senza volto si scarta dalla trappola dell’ideologia, evocando attraverso un felicissimo equilibrio di silenzi, parole e gesti interrotti la dimensione più universalmente umana del ribelle (regia Aldo Cassano); meno convincente, invece, la drammaturgia di Ida Farè che, risentendo a tratti di una letterarietà forse poco teatrale, fatica a sfondare la distanza del tempo, mancando di gettare ponti convincenti con il presente: tanto da dare l’impressione che l’intero spettacolo sia solo un preludio.
Subito a seguire, nell’altra sala del Teatro India (con la discutibile formula del doppio spettacolo a serata non esattamente un modello di valorizzazione che fa fronte maldestramente alla congestione di spettacoli richiesta dalla riforma del FUS; di fatto ieri c’erano 15 e poi 50 spettatori), va in scena La belle Joyeuse.
Siamo nell’Ottocento, Cristina Trivulzio di Belgiojoso è una delle figura chiave del Risorgimento italiano. Una vita avventurosa la sua, segnata da continui alti e bassi, tra ricchezza e povertà, masse e nobiltà, fama e discredito: attrice, scrittrice, giornalista, patriota, un personaggio eccentrico che riuniva in sé tanto l’idealismo eroico tipicamente romantico quanto il cinismo ironico dell’Illuminismo, senza mai rinunciare all’innato gusto per il Bello.
Una scena essenziale, cupa, segnata da pochi semplici elementi di arredo; mentre sullo sfondo domina un ampio telo la dura storia , grezzo, scrostato, come una tela di Burri, che ora sembra cuoio, ora rame, ora una garza sporca d’ospedale (scene S.Tramonti, luci P.Mari). La belle joyeuse si presenta come brillante monologo biografico: teatro di prosa senza particolari letture drammaturgiche o registiche (Gianfranco Fiore), attuale nello spirito ma piuttosto tradizionale nella forma; ciononostante, per settanta minuti nessuno si distrae, non un colpo di tosse né un sospiro.
Magnetica e affascinante, con dissimulata maestria Anna Bonaiuto cattura ogni sguardo: una cura attoriale che il teatro di ricerca spesso non è in grado di vantare. Sempre sotto la giusta luce, sempre a proprio agio, rilassata, ironica, affabile; anche quando la mole della narrazione costringe a inanellare decine e decine di parole non si sente un respiro. Come uscita fuori da un morbido quadro di Hayez ma con il fascino irridente di una belle dame sans merci, l’attrice supplisce alla linearità della messa in scena restituendo tutta l’intrigante ambiguità di questa donna che tenne in pugno i più influenti protagonisti dell’Ottocento ripagandoli con la stessa moneta che da secoli gli uomini riservavano alle donne nel “gioco di società”: la sprezzante indifferenza.
Ascolto consigliato
Teatro India, Roma – 14 gennaio 2016
In apertura: Marc Quinn Siren 2008, dettaglio ©Marc Quinn 2008 from Statuephilia: Contemporary sculptors at the British MuseumFoto