Un essere autenticamente mediocre, forse il migliore di tutti noi
«Siamo qui, tutti riuniti, per ricordare un amico che non c'è più. Un impiegato modello, ubbidiente, modesto, fedele, umile, dimesso, incolore, servile, vocato alla schiavitù, al sacrificio. Insomma, un essere autenticamente mediocre, forse il migliore di tutti noi. È sopravvissuto per quarant'anni al difficile ruolo di vice ultima ruota del carro nell'ufficio adulazioni». Si apre con questa orazione funebre di Filini (Gigi Reder), interrotta dal parroco per lasciar spazio all'incombente matrimonio da celebrare, l'ottavo capitolo della saga fantozziana, Fantozzi va in paradiso (1993). Il titolo della pellicola, la descrizione del ragionier Filini e l'abile gioco d'inquadrature potrebbero far intuire il passaggio a miglior vita di Fantozzi (Paolo Villaggio), invece eccolo lì apparire in extremis in tutta la sua inettitudine. Fantozzi è questo: situazioni paradossali, allusioni, equivoci e accanimento smisurato verso quella merdaccia che è e sempre sarà.
D'altronde anche in questo articolo non si vuole di certo seppellire il Ragioniere più famoso del cinema italiano, al contrario, siamo qui per tesserne l'elogio. Sono passati ormai quarant'anni dal primo storico Fantozzi, anniversario celebrato con il ritorno nelle sale dei primi due capitoli, entrambi diretti da Luciano Salce, distribuiti in versione restaurata e in 2K. Dal 26 al 28 ottobre si potrà riammirare Fantozzi (1975), mentre dal 2 al 4 novembre sarà la volta de Il secondo tragico Fantozzi (1976). La leggenda del Ragioniere Ugo ha, però, radici più datate. Tutto parte dal lavoro di Villaggio come impiegato presso l'Italsider di Genova, azienda siderurgica dalla quale trarrà ispirazione per l'elaborazione dei suoi personaggi; poi l'amicizia con Fabrizio De André e il cabaret, grazie al quale viene notato da Maurizio Costanzo che lo porta in radio e sul piccolo schermo.
Nasce il programma radiofonico Il sabato del Villaggio (1968), cui seguono i televisivi Quelli della domenica (1968) e Senza rete (1971). In questi contenitori prendono forma i suoi primi personaggi di successo Kranz e Giandomenico Fracchia, e più in sordina, Ugo Fantozzi. La vera affermazione del suo personaggio principe avviene sulle colonne dell'Europeo, settimanale di attualità, che inizia a pubblicare i racconti di Villaggio incentrati sulla figura di Fantozzi. Racconti poi confluiti nell'omonimo libro edito da Rizzoli (1971) che diventa presto un best-seller e al quale segue un secondo capitolo, Il secondo tragico Fantozzi (1974). Quale occasione migliore per una trasposizione cinematografica? Di qui, infatti, arriva il successo al botteghino e la realizzazione di ben dieci pellicole dedicate al Ragioniere. Ma se si pensa che Fantozzi sia solamente un incredibile successo commerciale, significa sottovalutarlo e sminuirlo oltremodo.
Partiamo dall'aggettivo fantozziano. Termini come questo si definiscono deonomastici: da un nome proprio o da un cognome deriva un nome comune, un verbo o nel caso più comune un aggettivo. Il torinese è un deonomastico che indica l'appartenenza di un individuo alla città di Torino, così come affermare che Il Padrino è un film coppoliano significa attribuire la paternità di un'opera al suo legittimo creatore. In questi casi tutto rimane stabile al suo contesto di provenienza, restando perfettamente familiare. Talvolta, però, il deonomastico travalica il suo cerchio d'appartenenza di primo grado, lusso concesso a pochi eletti. È il caso di felliniano, utilizzato per indicare delle suggestioni grottesche e oniriche anche quando non si parla nello specifico di un film del regista romagnolo. E qual è il termine più volte utilizzato per descrivere l'imperizia di una persona? Già, provate a cercare il termine fantozziano sull'Enciclopedia Treccani, il risultato è questo:
agg. [der. di fantozzi (v. la voce prec.)], fam. Di persona, impacciato e servile con i superiori: quel collaboratore è proprio una figura fantozziana. Anche, di accadimento, penoso e ridicolo: una situazione fantozziana
Fellini e Villaggio, l'accoppiata non è casuale. Il regista di Amarcord, come riportato in un recente articolo apparso su La Stampa, ha avuto modo di riferire a Villaggio le seguenti parole: «Paolino, tu hai ampliato e modificato la lingua italiana». Negli anni Settanta e Ottanta, infatti, la scena italiana era imperversata da comici e imitatori che basavano il proprio repertorio sui dialettalismi. Così non è stato per Fantozzi, che ha sempre parlato e massacrato un italiano che esprimeva una particolare condizione esistenziale, quella dell'essere ignorante come un ragno marziano. Se i congiuntivi fantozziani sono diventati un autentico esempio per sbeffeggiare gli errori d'individui non perfettamente a proprio agio con la nostra ostica lingua; dall'altra parte ci sono parole o accostamenti di esse che oggi ci appaiono assolutamente nella norma, ma che non lo erano quarant'anni fa. Come rileva Stefano Bartezzaghi nel saggio di semiotica fantozziana incluso nella raccolta Fantozzi, rag. Ugo La tragica e definitiva trilogia (Rizzoli, 2013), gli aggettivi cesso e megagalattico, gli iperbolici abissale e allucinante, i verbi come incazzarsi o incraniarsi, erano poco utilizzati, se non completamente inventati o accostati per creare binomi inediti.
Il fattore linguistico ha un certo peso specifico nell'opera di Villaggio, così come il fattore costume. L'attore e scrittore genovese, infatti, offre nelle sue pellicole una perfetta fotografia dei vari ceti che si andavano a definire tra gli anni Sessanta e Settanta. Attraverso una serie di personaggi viene messa a nudo un'Italia meschina, ruffiana, arrivista e trainata dal settore secondario dell'industria. Il ragionier Filini, propositivo accompagnatore di mille sventure; il geometra Calboni (Giuseppe Anatrelli), cialtrone e provocatore; la signorina Silvani (Anna Mazzamauro), eterno e inarrivabile amore (quasi) segreto, animano i corridoi e gli uffici della Ital-petrol-ceme-termo-tessil-farmo-metal-chimica, l'azienda governata da megadirettori e dirigenti senza scrupoli. Qui Fantozzi accumula frustrazioni che trovano libero sfogo nelle uniche creature che lo temono: Pina (Liù Bosisio/Milena Vukotic), la moglie che ormai non riesce più a guardare in faccia e Mariangela (Plinio Fernando), la sua babbuina. Ma i suoi scatti d'ira sono sempre interrotti dalla sua rinomata sfiga che spesso lo porta a peggiorare la situazione. Una società composta, dunque, da inconsapevoli perdenti, tra i quali Fantozzi, autodefinito il più grande perditore di tutti i tempi, non può che uscirne, per una volta, vincitore.
Con i suoi pantaloni e le mutande ascellari, il baschetto nero e la sua inseparabile Bianchina, Fantozzi ha creato immagini e situazioni divenute patrimonio della comicità italiana. Come non ricordare la nuvola di pioggia che lo perseguita nei giorni di ferie; i suoi improbabili abbigliamenti nelle attività extra-lavorative; lo scambio di congiuntivi nella partita a tennis con il ragioniere Filini; il campetto disastrato che ospita la partita scapoli-ammogliati; «Questa è classe, coglionazzo» durante la partita di biliardo col Conte Catellani. In quanti hanno conosciuto La corazzata Potëmkin solo dopo aver udito il suo memorabile sfogo al cineforum: «La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!»? Si potrebbe continuare per pagine e pagine a descrivere queste scene ormai impresse nella nostra memoria e che, come affermato in occasione della Festa del Cinema di Roma dallo stesso Villaggio, riemergono nel nostro quotidiano, perché «Adesso (Fantozzi) sarebbe nel suo habitat naturale, oggi gli italiani sono tutti Fantozzi». Tra precariato, indole a subire e voglia di apparire a tutti i costi, come dargli torto?
Non ci resta, quindi, che tornare ad affollare le sale che proietteranno i due geniali film con la sicurezza che sarà un ennesimo successo. Perché in fondo la storia ci insegna che il cinema ama i loser, e qui si parla di uno tra i primi cinque perdenti della storia.