Fäk Fek Fik – Dante Antonelli | Collettivo SCH.lab
“L’idiota ammassa parole
Ma l’uomo ignora quel che sarà
Chi gli dirà il futuro?”
Duemila e trecento anni fa, il “Raccoglitore” forse Salomone stesso scrutava attorno a sé e vedeva la legge del destino e del caso falciare le vite degli uomini, mortificando le loro ambizioni, vanificando ogni fatica: tutto gli appariva come “fumo dei fumi, soffio che ha fame”. Eppure da quel fumo nasceva una grande saggezza, inutile forse ma necessaria, che gettava uno sguardo penetrante sul vivere. Ma cosa c’entra ora il fumo del Qohélet con la merda dell’irriverente Werner Schwab?
Il teatro per il drammaturgo austriaco era come l’alchimia, un’arte impossibile che doveva riuscire a trasformare la merda (la terra se preferite) in oro: la parola inerte in carne viva: la speranza (cattolica) in di-sperata libertà: il teatro in vita. Per entrare nella dimensione dei Drammi fecali, insomma, ci si deve sporcare, e Fäk Fek Fik drammaturgia originale nata dalle suggestioni del dramma Le Presidentesse non teme la lordura, perché questa, ben lungi dal rappresentare un eccesso compiaciuto, ci mostra il riflesso impietoso della quotidianità. E forse anche il suo scacco.
Palco spoglio. Fruscio urbano. Luci verdi. “Io sono lo sporco”. È da qui che tutto ha inizio, da una speranza che è già bagliore melmoso, dalla carne che si svuota insieme alla parola. Entriamo così nella vita di tre donne, che proprio come Le Presidentesse di Schwab sono ossessionate dai loro desideri di fede, piacere, carità; desideri che sono tanto più intensi quanto più si scontrano con il muro imbrattato della realtà. La scena procede con ritmo cinematografico, incalzante: parole e gesti si alternano come interviste-confessione montate in successione, tanto che il meccanismo teatrale accelera, si apre, si dilata in un caleidoscopio di scenari che travalicano le vite delle tre protagoniste (complice l’habitat sonoro composto dal vivo di Samuele Cestola).
Al contrario della fonte di ispirazione, infatti, qui la dimensione della storia non è surreale, ma fa un passo avanti, si affaccia al mondo familiare dell’attualità, “porta sulla scena quello che Schwab non ha mai scritto” (raro esempio di note di regia sincere). Fra precariato, pop-ecologismo e consumismo, Fäk Fek Fik (regia di Dante Antonelli) proietta il pubblico in una dimensione immediatamente vicina, la cui voce che si conosca o meno Schwab emerge subito eloquente, chiarissima, amara nonché spietatamente esilarante.
Si giungerà così all’onesto denudamento, al momento in cui il corpo non ha più nulla da esibire, quando esso cioè si fa involucro trasparente di fronte al quale gli orpelli culturali non possono più nulla.
Ma, sorprendentemente, tutto rimarrà misurato, brillantemente sfacciato eppure chirurgico, scientifico, in una precisione dissimulata à la Antonio Rezza per cui grottesco e iperbole si fondono tra di loro senza che il pubblico ne avverta lo scarto. Anzi, quando dopo lo “spoglio” della verità il dramma recupererà una dimensione più prepotentemente schwabiana nella lingua, gli spettatori ormai si lasceranno coinvolgere senza il minimo orrore.
Oltre a rivelarsi probabilmente uno degli spettacoli più interessanti dell’intera stagione romana, Fäk Fek Fik dimostra nella presenza e nella consapevolezza delle tre notevoli attrici-autrici (Martina Badiluzzi, Ylenya Giovanna Cammisa, Arianna Pozzoli) quanto drammaturgia e recitazione debbano correre lungo lo stesso binario: una lezione che, per quanto scontata, spesso alle nuove generazioni di teatranti non sembra così evidente, facendoli deragliare in una corsa schizofrenica all’originalità. O come recita l’antico rotolo ebraico:
“La fatica dell’uomo
È tutta per la sua bocca
E la gola non è mai piena
Che cosa avrà un sapiente
Più di un idiota?”
(Foto ©Manuela Giusto | Tutti i diritti riservati)