In quel folle e visionario omaggio al cinema e all’arte attoriale che è Holy Motors (2012, Leos Carax), lo stanco e insofferente protagonista (Denis Lavant) spiega in una limousine al suo interlocutore (Michel Piccoli), perché continui a condurre una vita fatta di maschere e cambi di personalità: «Per la bellezza del gesto». Questa citazione racchiude tutta la grandezza dell’espressione attoriale, un’espressione che necessita di un pubblico per trovare un pieno compimento, ma potrebbe anche vivere di luce propria. Edipus, in tal senso, ne è una prova lampante.
Capitolo conclusivo della Trilogia degli Scarrozzanti, Edipus è l’opera di Giovanni Testori (1923-93) che più rende omaggio al teatro. La base di partenza è chiaramente il mito di Edipo, che lo scrittore milanese cerca non di imitare ma bensì di emulare, in modo da poter gareggiare con i suoi antecedenti letterari. La sua è una scrittura contemporanea che ruba alla tragedia sofoclea i presupposti per un’elaborazione del tutto originale, partendo dalla vicenda e finendo al linguaggio, tratto più interessante e meticolosamente studiato da Testori. Latino, dialetto, termini stranieri e citazioni si avvicendano in un testo in cui la parola, turbolenta e mai doma, è la principale protagonista.
L’unico interprete dell’opera è il capocomico di una compagnia di guitti che fatica a trovar spazio nel teatro che conta. Questa banda di reietti continua ostinatamente a mettere in scena i grandi classici del passato e, pur di ricevere consensi dal pubblico, inventa un linguaggio più comprensibile dal popolo, miscuglio di dialetti, latinismi e volgarità di ogni genere. Il successo stenta ad arrivare, e così l’attore che interpreta Laio (padre di Edipo) lascia la compagnia per guadagnarsi da vivere facendo «el travestitico in d’una compagnia de revistaroli e de cabarettisti!», mentre la prima attrice lo abbandona per sposarsi «cont quel fabbrecante de Mobili» che le garantisce una vita dignitosa. A recitare la storia di Edipus, allora, rimane solo il capocomico e la sua passione. E tanto basta per interpretare da solo tutti i ruoli dell’opera.
Lo spettacolo inizia con il protagonista (Eugenio Allegri) assopito, in abiti da clown. Ha dormito dimenticando di togliersi il naso da pagliaccio: è la vita che ha scelto, l’attore e l’uomo sono ormai in perfetta simbiosi. Di lì in poi si trasforma in un babelico mattatore per dar vita all’Edipus. Irriverente, struggente, malinconico, esilarante; l’attore piemontese, sempre sopra le righe, cambia registro emotivo, vocale e morfologico con facilità sbalorditiva. Il tutto è scandito dai cambi d’abito, che Leo Muscato fa fare a vista, dietro delle quinte rese trasparenti dal disegno luci. Lo spettatore in questo modo può osservare senza veli i cambiamenti e le confessioni del capocomico rimasto solo con un ragazzo che ormai non lo segue più a dovere.
Lo spettacolo, infine, termina con l’attore “attore” che rindossa gli abiti dell’incipit e rivolge un sorriso al pubblico: è contento, la sua felicità, però, non la trova negli applausi degli spettatori, ma piuttosto nella consapevolezza di avercela fatta ancora una volta. Potrebbe anche esibirsi davanti a una sala vuota e ritrovarsi appagato; per la bellezza del gesto e perché, come dirà nel corso della rappresentazione, «el teatro existe e rexisterà contra de tutti e de tutto, infino alla finis delle finis».
Teatro dell’Orologio, Roma – 6 marzo 2015