Eco, o lo scacco della visione – Vincenzo Schino | Opera
A volte le esperienze non sono importanti in sé ma per ciò che riescono ad attivare: qualcosa che sul momento ci infastidisce o sembra lasciarci indifferenti, ecco che col tempo (cioè col ritornarci su col pensiero) scatena emozioni inaspettate.
Questo può il teatro. E forse lo può più delle altre arti, perché assistere a uno spettacolo è innanzitutto avere una visione (come d’altronde suggerisce l’etimologia stessa della parola). Una visione che ritorni, che ci insegua, che sfugga alla volgare comprensione per essere, piuttosto, còlta.
Sembra proprio questa la dimensione in cui intende trasportarci Vincenzo Schino (gruppo di ricerca Opera). Entriamo nella Sala dell’Orologio in attesa di uno spettacolo, ma ad accoglierci è il buio. Non ci sono sedie. Lo spettacolo va cercato. Un faro suggerisce di guardare a terra. Cerchi nell’acqua, gocce che cadono: un grande piatto tondo ci attira a sé come fosse uno specchio liquido, luogo di chiaroveggenza. Ed ecco che dal fondo emergono altri volti in videoproiezione. Osservano come dall’alto, chinati su di noi. Chi è a guardare cosa?
Uno spettacolo però ci dovrà pur essere. Allora un altro faro ci spinge ad osservare più in là. Sospeso nell’aria, delicatissimo e fragile, uno scheletro stilizzato in metallo si muove nell’aria. Gli occhi dei presenti scrutano con incanto, eppure non basta ancora: lo spettacolo! bisogna trovare lo spettacolo! E allora tutti a stringersi attorno al mistero. Chi muove i fili? E perché lo fa dal basso? Il burattinaio (Marta Bichisao) è barricato in un serraglio di porte, possiamo solo spiare dalle fessure o dagli occhielli. La vista è costretta a flettersi, il pensiero comincia finalmente a piegarsi.
Insomma, brillante esercizio di scacco. Autoscacco. Nella sua continua sospensione e dilazione dello sguardo, infatti, Eco (2012) ci costringe a confrontarci con il nostro stesso genuino e perverso voyeurismo da spettatore. Cos’è che cerchiamo in uno spettacolo? Cosa pretendiamo di dover vedere? Quale mistero mai giustifica la nostra smania di sapere se non quella stessa visione negata?
Sono trenta minuti di apparente frustrazione dello sguardo. La visione non giunge: più sfugge più la si cerca, e più non la si trova più prende forma al nostro interno. Eccola l’Eco di Opera, una pratica paziente alla costanza e alla consapevolezza; tutto si fa riflesso di qualcos’altro, ma qualcosa che prima ci era sfuggito e che ora, ritornando, trova finalmente, libero dalla necessità di “dover essere qualcosa”, la sua propagazione.
Come il supplizio di Tantalo, più allunghiamo la mano più il frutto ci sfugge. Dobbiamo ripartire dalle rifrazioni e cogliere il nostro vero nutrimento attraverso la “curvità” dello spazio e del tempo, senza costringere cioè le nostre esperienze alla linearità di un ordine. Solo così potrà schiudersi davvero una visione.
Ascolto consigliato
Terni Festival, Sala dell’Orologio, CAOS, Terni – 19 settembre 2015