È solo la fine del mondo del regista canadese Xavier Dolan, l’enfant prodige ormai affermato nel panorama cinematografico internazionale, è uscito nelle sale italiane lo scorso dicembre, dopo essersi aggiudicato il Grand Prix della Giuria a Cannes.
Riadattando la pièce teatrale omonima di Jean-Luc Lagarce, Dolan trasporta sul grande schermo la storia di Louis (Gaspard Ulliel), scrittore di successo, che, dopo un’assenza di dodici anni, torna a casa con l’intenzione di annunciare ai familiari la propria morte imminente. Ad accoglierlo troverà l’entusiasmo ai limiti dell’isteria della madre (Nathalie Baye), la dura ostilità del fratello maggiore (Vincent Cassel) e l’eccitazione della sorella minore (Léa Seydoux) che lo adora, pur non conoscendolo. Tra le mura domestiche scoppiano subito tensioni e nevrosi, e, tra rancori ed incomprensioni familiari, l’unica persona che sembra provare empatia con Louis è la cognata (Marion Cotillard), nonostante i due si siano appena conosciuti.
Il film è dunque il racconto di un ritorno: ritorno alla casa d’infanzia e al passato, e quindi un ritorno doloroso, un viaggio di un’anima tormentata e sul punto di morte, attraverso ricordi e nostalgie, verso una casa che ormai non è più nido, ma trappola, come ribadisce la canzone Home is Where it Hurts che fa da sottofondo musicale.
Se in Mommy (2014) i personaggi erano costretti in un formato quadrato (1:1) claustrofobico, qui Dolan si sofferma su espressioni ed emozioni con inquadrature strette ed intime, in un’armonica alternanza di primi e primissimi piani, se non dettagli. Così Dolan si smarca dai limiti imposti dalla “teatralità” del testo originario: nonostante l’impianto teatrale del film, ambientato in interno e costruito su un continuo flusso di dialoghi (e di coscienze), Dolan riesce a sfruttare ogni potenzialità del mezzo cinematografico, con una sensibilità verso dettagli e sfumature che il teatro non avrebbe permesso di comunicare.
È solo la fine del mondo è un film penetrante, che scava nei turbamenti di una famiglia qualunque, in cui l’incapacità di esprimersi e la difficoltà di comunicare lasciano spazio alla paura; immerge lo spettatore nel caldo torbido che avvolge le vite di cinque persone che affidano la propria fragilità a sguardi che dicano tutto quello che le parole non sono in grado di esprimere. I dialoghi esplodono per poi spezzarsi, lasciando che terribili verità emergano singhiozzanti, tra sospiri ed urla, riempendo vuoti vertiginosi tra persone che si vogliono bene, ma non si comprendono. In splendide sequenze nostalgiche i ricordi si insinuano improvvisi, dietro una tenda scostata dal vento estivo o tra gli oggetti in uno sgabuzzino impolverato. Il continuo ticchettio di un orologio a cucù ricorda quanto tempo è stato perso e quanto poco ne resta a disposizione.
Dolan dirige attori straordinari, che recitano in totale sintonia, sulle note di musiche coerenti e perfettamente integrate con la narrazione, in un equilibrio tra visivo e sonoro. Al contrario di quanto affermato da certa critica prevenuta ed ostile, le scelte stilistiche qui non appaiono come un vuoto gioco virtuosistico fine a se stesso, ma anzi si pongono magistralmente al servizio della storia, col solo obiettivo di coinvolgere e regalare emozioni implacabili. Non possiamo sottrarci alla tensione emotiva di questi novantacinque minuti, costruiti con un montaggio sublime, che lega le anime dei personaggi in un intreccio tormentato, fino all’implosione finale. Con il sesto lungometraggio, Xavier Dolan si conferma ancora una volta per quello che è: un regista geniale.