Dulcinea
Il surrealismo sarebbe l'espressione di questo dramma, i surrealisti tendono all'auto-divinizzazione
Una sequenza di voci registrate dalla segreteria telefonica, fuori campo; un lento movimento della macchina da presa in contre-plongée alza il quadro (un curioso aspect ratio 4:3 dagli angoli curvati), dai piedi al volto della ragazza. I messaggi della segreteria presentano e pre-annunciano la messa in scena che seguirà, e, con gli ultimi minuti del film, implicitamente svelano il giocattolo di Luca Ferri. In questi messaggi si parla di appuntamenti (la ragazza è una studentessa, che evidentemente si prostituisce: una delle prime voci che sentiamo appartiene a una sua collega, seguiranno le voci dei due clienti che lungo il film poi si paleseranno), ritualità (il chiaro contenuto di un altro dei vari messaggi che preavvisano l’arrivo in scena di un certo Don Alonso è enigma più avanti risolto), (s)oggetto allegorico (alla ragazza verrà restituito un libro, il Don Chisciotte di Cervantes).
Va detto in principio che Dulcinea è un film che si fa carico di una gamma di citazioni, riferimenti e segni non indifferente. Il libro di Miguel de Cervantes è uno di questi, presenza che metaforicamente sottolinea i (non) rapporti tra la ragazza che vediamo nell’incipit (chi se non l’ideale Dulcinea del romanzo?) e la sua controfigura, l’altro protagonista del film, il cliente “Don” Alonso che ha richiesto l’appuntamento, ed entrerà in scena già nella sequenza che segue. Dopo questo prologo funzionalmente sommario, le scene successive si articoleranno secondo uno schematismo reiterato: assisteremo all’arrivo all’appartamento del misterioso cliente, che anziché consumare il servizio inizierà a compiere una serie di azioni apparentemente inspiegabili, che vanno dal pulire scrupolosamente ogni anfratto nel domicilio della ragazza, prepararle i pasti, assisterla in ogni mossa, raccogliere e conservare in ogni sequenza un diverso oggetto che Dulcinea lascerà dietro di sé.
Nell’appartamento (uno spazio impersonale, catturato in quadri geometrici, cristallizzato in rigide simmetrie di linee e volumi, piegato a precise e metacinematografiche cornici, risolto in eleganti mise en abyme sulla profondità di campo) regna il silenzio e l’ordine, uno spazio statico-dinamico in cui ci si illude non si (s)muova neanche il tempo. Presenza tuttavia, quella del tempo, richiamata ciclicamente dall’inquadratura di un orologio che segna il decorso dell’opera di questo strano (in)discreto individuo, dalle 12.20 alle 17.00. Un film quindi che possiede una dimensione temporale per certi versi controversa, se si considerano le uniche voci (assenti) che possiamo percepire, voci off screen registrate, che puntualizzano e danno un’identità a quella Milano che si mostrerà in alcuni rapidi piani d’ambientazione, forse fissandola ad un periodo, quello di Tangentopoli, di Enrico Cuccia (figura qua riesumata in una trasmissione radiofonica, quasi presenza fantasmatica). Tempo che apparentemente viene interdetto dalla ripetitività dei gesti attanziali (tante costanti e ben poche variabili nelle mosse dei personaggi), dei movimenti e degli spazi (gli stessi, esaminati dalla macchina da presa lungo tutto l’arco del racconto tramite le stesse modalità; campi medi, rari primi piani, carrelli laterali e diversi longtakes, sempre ripetuti nella stessa successione); questa ricostruzione spinge ad un formalismo che punta ad evidenziare l’atto stesso reso carattere del reiterare: la coazione a ripetere. Pulire minuziosamente le stanze, prelevare un feticcio (riporlo in un sacchetto di nylon e poi in una valigetta; si riassume così il ruolo – autoimposto – di Don Alonso). Dulcinea nel mentre passeggia svogliata per la casa e sembra non accorgersi minimamente della sua presenza. Due attanti che non si guarderanno, non si toccheranno, né si parleranno mai, non avranno alcun tipo di interazione diretta; guarderanno solo i loro riflessi, nei vari specchi disseminati nelle stanze (e soltanto in un fugace gioco voyeuristico, mediante lo schermo di un vetro, l’uomo si ritroverà a fissare proibitivamente la ragazza).
Nell’ultima scena del film è ancora una voce off (over? – il dubbio sorge spontaneo, data l’icasticità delle inquadrature – e della figura che vi è rinchiusa e centrata – su cui è allestito il montaggio sonoro: personalmente mi rispondo che si tratta di un’auricolarizzazione interna primaria, di una voce over descrittiva che vale per e sente solo Don Alonso) emessa dal registratore ad assumersi il ruolo di “surreale” narratore, interpellando implicitamente il narratario, regalandogli le chiavi di lettura e decriptazione definitive dell’intreccio, facendosi parola-testo. Lo scacco dato dal distacco e dall’impossibilità interattiva, trova le sue referenze negli atteggiamenti frustrati del cliente, che al termine di ogni pulizia, colto da un disperato raptus, annulla furiosamente il suo lavoro (“Il complesso del fiasco”: meccanismo nevrotico che consiste nel rivolgere l’aggressività verso sé stesso, nel punirsi in modo da fallire sempre. Analogo al complesso di Amleto: l’incapacità di agire” […] ), perseguito con pervicace ossessività compulsiva (“Adler ha dimostrato che la ricerca della velocità è una ricerca patologica della superiorità”), la ricerca altrettanto ossessiva della perfezione igienica (“Uno che non ha mai tentato di essere simile a Dio è meno di un uomo”, Paul Valéry […] il complesso della auto-divinizzazione individuato da Adler: la tendenza a volersi simili a Dio e lo stato di uomo, c’è una frattura di mezzo – a volte risentita in modo drammatico – […] ), la consapevolezza dell’inadeguatezza e la frustrazione della sostituzione (“Il complesso di Re Marco – il complesso del terzo escluso – : in un ménage à trois sottolinea l’ambivalenza di alcuni soggetti che vogliono e insieme non vogliono essere traditi e sono pervasi dal desiderio inconscio di una punizione”). Ecco che il meccanismo all’inizio ermetico di Ferri si scompone, lasciandosi dietro qualche altro simbolo di non altrettanto immediata intelligibilità a primo acchitto (l’evocazione di Cuccia, il ruolo iconografico de Le violon d’Ingres di Man Ray tatuato sui fianchi della ragazza, la funzione di un carillon suonato), poi chiari una volta tolto l’ultimo velo sull’opera e terminata la missione esegetica, l’ultima conclusione che giustifica l’eccedenza nella realtà della narrazione, giustificando il dittico che accomuna tutte le opere più o meno velatamente citate, il filo che intercorre tra (sur)realtà e illusione.