Diversi villaggi, diverse comunità
Un giorno al festival capitolino Short Theatre 11
Il villaggio di Short Theatre è una mappa che si muove lungo diverse coordinate spazio-temporali: in un solo giorno si passa dal Tasso contemporanea e senza tempo di Brinchi/Spanò al presente in stallo dei due amici di OHT, attraversando un passato recente ancora doloroso con Milo Rau.
Così, ogni spettacolo-villaggio diventa una comunità; ogni comunità un modo diverso d’interpretarla.
Ed è proprio una piccola comunità quella che anche quest’anno si è venuta a creare all’interno di Short Theatre alla sua XI edizione: una comunità cangiante e in continuo fermento, composta dai volti di chi il festival lo fa e di chi lo anima a diverso titolo. Se nelle edizioni precedenti erano state mosse al festival alcune critiche per la sua presunta chiusura autoreferenziale (Porcheddu, Short Theatre o della comunità senza futuro), quest’anno sembra invece aprirsi di più alla città grazie a una programmazione non solo artisticamente valida ma anche variegata nei generi, riuscendo così a captare diverse esigenze: solo nella giornata di giovedì 15 è stato possibile assistere, dicevamo, al teatro di OHT e Milo Rau, la sperimentazione di Brinchi/Spanò, nonché alla drammaturgia contemporanea di Sonia Chiambretto/Muta Imago, e – ancora – alla danza di MK e la performance di Ivana Müller a Villa Medici.
E allora, come reagisce la comunità – il pubblico – agli spettacoli proposti?
• Five Easy Pieces di Milo Rau
Con Rau il ruolo del pubblico è fortemente rimesso in discussione da domande complesse e sconvolgenti che scaturiscono a loro volta da una struttura teatrale clamorosamente limpida. Five Easy Pieces si muove lungo il filo della memoria – personale e collettiva – di una ferita ancora lacerante che si aprì nel Belgio degli anni Ottanta: si tratta degli assassinî efferati del pedofilo Marc Dutroux, “il mostro di Marcinelle”, la cui vicenda è ora riproposta a teatro con uno scarto millimetrico dalla realtà dei fatti.
Quello che però sarebbe intollerabile rivivere in scena in qualsiasi modalità tradizionale è fatto slittare su un piano straniante giacché a interpretarlo sarà un gruppo di bambini dagli 8 ai 13 anni sovrastati dalle stesse identiche scene interpretate da attori adulti sullo schermo dietro di loro; il tutto spezzato da continue interruzioni di natura meta-teatrale.
Nell’intersecare, amplificare e far riverberare piani diversi, Rau unisce il dato analitico dell’inchiesta giornalistica a una riflessione teorica di stampo brechtiano sullo iato fra essere e interpretare, nonché a una più etica sulle possibilità del teatro e sui suoi limiti di ri-velazione della verità, anche rispetto ai bambini in scena (per approfondire rimandiamo all’approfondimento di Attilio Scarpellini). Ma questo non è tutto, perché Rau innesta inoltre un’ardita riflessione pedagogica in cui l’infanzia non è l’oasi di innocenza che siamo abituati a credere («Hai mai ucciso qualcosa?» chiede l’adulto/regista che guida il gruppo: le risposte sono a dir poco inquietanti), al contrario, non è affatto immune, seppur in scala minore, all’abisso dei sentimenti degli adulti.
Così, il regista svizzero non edulcora nulla della vicenda cruenta, non fa gigioneggiare i suoi piccoli interpreti, lascia semplicemente che siano sé stessi, catapultandoli nella penombra della vita adulta con i limiti conoscitivi e interpretativi del caso. L’effetto sul pubblico è, semplicemente, devastante.
• Aminta di Brinchi/Spanò
Dopo lo straniamento brechtiano di Five easy pieces, con l’Aminta, al contrario, ci si lascia avvolgere dal suggestivo affresco audio-visivo ideato da Luca Brinchi (ex Santasangre) e Daniele Spanò.
Scompaiono i personaggi dell’Aminta, o meglio, diventano pure presenze eteree sullo schermo, oppure labbra impresse su teli che in un continuo scroscio di voce raccontano questa favola pastorale dal cuore torbido in cui amore e odio, passione e follia si rincorrono pericolosamente nei sentimento del pastore Aminta non corrisposti dalla ninfa Silvia (riscrittura drammaturgica di M. Ruggeri ed E.Z. Galli di Industria Indipendente). Quello di Brinchi/Spanò è un tentativo di compenetrazione tra pubblico e dispositivo teatrale: sembra quasi di entrare in quei paesaggi bucolici carichi di mistero e minaccia, o di sentire sulla nostra pelle il ronzio dell’ago di Brinchi mentre si tatua «s’ei piace ei lice» sull’indice.
Aminta. Foto di scena. ©Claudia Pajewski
Ma ciò che per Tasso era un invito a tornare a un tempo d’innocenza privo del male e della violenza della civiltà, oggi può essere valido per motivi ancora diversi, forse per la conquista di una nuova libertà sessuale; oppure per l’esatto opposto: ciò che piace è lecito nella società edonistica dei consumi proprio perché – per citare Žižek – il piacere si erge a ormai “regola”.
• Autoritratto con due amici di OHT
E infine, dall’età dell’oro irraggiungibile piombiamo nel presente decisamente desolato di OHT. In una società che punta tutto sulle “eccellenze”, sembrano chiedersi i due attori/drammaturghi (C.A. Gillot e P. Schott), che fine fanno tutte le non-eccellenze?
Adrian e Patrick sono due “weirdos” aspiranti artisti in cerca della svolta della vita, un buffo connubio fra lo “stay hungry,stay foolish” di Steve Jobs per la fame di ambizione e “Fail again. Fail better” di Beckett per le illusioni troppo tenaci. Con meccanismi attinti dal linguaggio della sit-com, ne vediamo le peripezie per entrare nel feroce mondo dell’arte, qui svelato con ironia e disincanto. Peccato però che questa drammaturgia dai toni delicati non sia supportata da una regia (Filippo Andreatta) che sappia calibrare in modo omogeneo ritmi e tempi scenici in modo da rendere il tutto più fluido e accattivante. In questo caso il pubblico, lungi dal distacco brechtiano o dal coinvolgimento sensoriale, rischia di perdere facilmente l’attenzione.
Come piccoli tasselli mai perfettamente combacianti di uno stesso mosaico, i “villaggi” di Short Theatre disvelano orrore e incanto, generano fallimento ed emarginazione, ci pongono cioè davanti a quelle variabili oscillatorie a cui è sempre esposta la comunità, proprio come succede fuori dalla Pelanda.
• Oltre la provincialità del ‘villaggio’ Roma: Short Theatre si rinnova, di Giulio Sonno
• Tight Theatre. Trattatello logico sui limiti presunti o reali di Short Theatre, di Giulio Sonno
La Pelanda, Roma – 15 settembre 2016