Districarsi nell’imbroglio dei festival romani
Da un capo all'altro della città alla ricerca di un tessuto comune
La scena romana è ingolfata, si sa. Una pentola a pressione in malo arnese, addormentata, che nella sua eterna inerzia di tanto in tanto riprende a sfiatare, così, con dissennata fanfara, quasi che finalmente la vecchia gallina desse l’atteso buon brodo. Quand’ecco che all’improvviso la valvola si inceppa, tossisce, annaspa, si strozza, e hai voglia ad alimentare la fiamma con nuovi virgulti o antica brace, niente, non va: ancora una volta ti devi sorbire un bollito mezzo crudo galleggiante in una brodaglia di contorni insapori.
Una ricetta giusta non c’è, o anche ci fosse non basterebbe, serve premura, costanza, cooperazione, ma non è proprio aria di convergenze nella città più cinica e anarchica d’Italia, ognuno vivacchia o sopravvive come può, però – e questo è innegabile – alla fine sull’intricata mappa teatrale capitolina una geometria di traiettorie pur emerge.
Proviamo a lasciarne qualche traccia, soprattutto per chi di Roma non è o vorrebbe (ri)avvicinarvisi, ché nonostante tutto, alla gloriosa città puttana e sputtanata nessuno riesce mai a rinunciare davvero: la vecchia matrona indolente, chissà come, trova sempre il modo di riattirare a sé.
L’inflazione di fine estate
Ebbene, cosa sta accadendo in questi ultimi mesi? Come ogni anno, dopo la consueta bonaccia estiva (felici e pregiate controtendenze le rassegne Il Giardino Ritrovato a Palazzo Venezia e Sere d’arte a Castel Sant’Angelo), a settembre, puntualmente, la Capitale si ridesta, esagitata e debordante, in una follia convulsa di festival, controfestival, minifestival, eventi speciali, aperture di stagione e via dicendo, che sempre più si protraggono fino a ottobre e ormai anche a novembre. In ordine sparso: Short Theatre, RomaEuropa, Teatri di Vetro, Le Vie dei Festival, Attraversamenti Multipli, Fringe Festival, Garofano Verde, TREND, eccetera eccetera.
Da questo rapido accenno, inevitabilmente approssimativo, si può già intuire quanto sia difficile per uno spettatore possibile – digiuno ma di buona volontà – orientarsi. Il più delle volte gli esiti sono due: o rinuncia per capogiro di possibilità o si affeziona a una realtà a discapito delle altre. Difficile dire quale il peggiore. Anche perché ormai si tratta di festival diffusi: non solo nel tempo, anche nello spazio.
Da un giorno all’altro capita di ritrovarsi in un festival, poi in una stagione, poi in un altro festival ancora, ritornando sempre allo stesso teatro. “E che c’è di male?” diranno le anime candide. Che se già per un operatore è complicato scorgere e promuovere una data scena teatrale, figurarsi per uno spettatore coglierla o saper contestualizzare lo spettacolo che va a vedere, prendersi la briga di rintracciare submovimenti, affinità con le altri arti, con la propria vita. È un po’, piuttosto, come al supermercato: tutto lí, tanto al chilo. Poi se vuoi scegli, ma se segui soltanto le offerte speciali o le campagne spot, va benissimo lo stesso, l’importante intanto è che compri.
Qualcosa però, dicevamo, pur si muove. L’intento qui, quanto mai parziale se non ingenuo, è di suggerire itinerari là dove le scene sembrano procedere ciascuna per la sua strada. In parole povere: c’è qualcosa – al di là della forma, delle risorse produttive, dell’origine, della vocazione, del posizionamento… – che può mettere in comune lavori apparentemente diversi presentati in contesti formalmente diversi? È possibile immaginare un orizzonte condiviso, nel e per – innanzitutto – l’occhio di chi li guarda?
La precarietà dello spazio
Partiamo da Espæce del francese Aurélien Bory, al centralissimo Teatro Argentina: RomaEuropa Festival. «Spazio», per l’appunto. L’assunto è George Perec, geniaccio di uno scrittore francese, noto per gli esperimenti letterari, le formule combinatorie, i pastiche, e tutte quelle forme ibride che hanno caratterizzato buona parte della letteratura ‘50-’70.
Qui cosa abbiamo? Un’imponente struttura scenografica, una sorta di enorme paratia, una sagoma da set tutta facciata. Pian piano quel muro scuro e uniforme comincia a piegarsi in angoli retti, dividendosi prima in due, poi in tre, poi in quattro, alterando totalmente la percezione dello spazio e dunque la condizione di chi si ritrova ad abitarlo (perfomer come campioni di umanità innanzi alla mutevolezza e all’incertezza del mondo—«liquidità» si direbbe oggi).
Se lo spettacolo, fondamentalmente, si traduce in una mega installazione performativa, che dàte alcuni interazioni con variazioni sul tema, non riesce ad andare oltre l’espediente, fascinando godibilmente da un lato ma difettando di una profonda e sotanziale drammaturgia dall’altro (per cui non può che esaurirsi per limitata indagine teatrale); è vero sì che traccia un segno chiaro e preciso: come reagiamo – e reagiamo? – di fronte alla precarietà di uno spazio vitale che cambia continuamente tanto nel tempo reale quanto in quello percepito?
Muoversi tra le rovine del presente
Una risposta la possiamo scorgere in Lettere anonime per un camminatore del collettivo modenese Amigdala. Ci spostiamo al Quadraro, Roma Sud-Est: Attraversamenti Multipli. Concepita specificamente per il Festival Periferico, quale attraversamento delle rovine di un paesaggio archeologico-industriale, la performance prende la forma di un’audiotraccia –consegnata in forma di lettore mp3 e cuffie a ciascun singolo e solitario spettatore – e si sviluppa in un pregevole montaggio di suoni, musiche, testimonianze degli abitanti del quartiere e una voce guida che invita intimamente a un passaggio consapevole.
Qui, di fatto, lo spettacolo lo fa lo sguardo dello spettatore, alla ricerca di risonanze tra quel macrocosmo assoluto e indifferente che va percorrendo di passo in passo e il suo piccolo microcosmo interiore, limitato, detto vita. Al Quadraro il percorso si arricchisce di nuove rifrazioni, impensabili a Modena: in primis l’inveterata vitalità del quartiere romano, là dove, invece, il decaduto Villaggio Artigiano (modello industriale di stampo emiliano, “comunista-imprenditoriale”, «casa-bottega») sta attraversando un processo di lenta e non sicura rigenerazione.
Sicuramente qualcosa si perde (complice la disparità dei tempi di indagine sul territorio), ma le testimonianze romane ben si incuneano nella drammaturgia di Amigdala, riconfermandone le urgenze socio-culturali: quale rapporto posso sviluppare, nel tempo, con lo spazio che abito? Come coniugare il mio desiderio di stabilità con la fatale caducità che accompagna, da sempre, ogni insediamento umano?
Alla ricerca dell’invisibile quotidiano
Facciamo qualche chilometro a nord, rimanendo sul versante est, ed entriamo a Centrale Preneste: Teatri di Vetro. Di nuovo una messa in scena, e la questione spaziale rimane preminente. Con Casual bystanders il coreografo e danzatore siciliano Salvo Lombardo, ex Clinica Mammut, va a indagare il depositato nello spazio dei gesti quotidiani. Sono i gesti distratti, minimi, insignificanti, quelli che nessuno noterebbe o che anche mai lo facesse non tratterrebbe nella memoria.
Tre danzatori, scena spoglia, quasi neutra, corpi come simulacri, piccoli passi, svuotati, in un limbo di ripetizione, quand’ecco che poco a poco quei movimenti decontestualizzati vanno a rimbalzare su un tappeto sonoro urbano e su uno sfondo, che non è grigio anodino come sembra, ma è composto da bande sottilissime, di luce e buio, che scorrono impercepibili, o “impercepite”, proprio come la vita delle persone che ci circondano. Quelle dei passanti occasionali, per l’appunto.
Cosa rimane del pulviscolo sciamante dell’umanità nel tempo e nello spazio? Quale responsabilità ha il nostro sguardo, al di là della memoria, nel presente? E infine: sappiamo concepire il «nostro» spazio anche come «altrui»?
Spazi di vita e tempi di rinascita
Proprio su quest’ultimo quesito si concentra il nuovo spettacolo della coppia Bartolini/Baronio Dove tutto è stato preso. Ritorniamo al di qua delle mura serviane, su uno dei sette colli, l’Esquilino, al ridotto del Brancaccio, il Brancaccino: sempre Teatri di Vetro. Ancora una volta una scena spoglia, essenziale, scontornata da una luce sempre aspra, arida, quasi tutto avvenisse alla fine di una lunga storia che ormai siamo tutti troppo stanchi di raccontare. Sono dialoghi mancati e monologhi ingombranti, sfoghi verbali e sfoghi musicali, entrambi accomunati dalla costruzione per loop. E poi ogni volta la desolazione della sconfitta. Nel silenzio di chi non sa cosa dire. Se dire.
Lo spazio si monta e si smonta con elementi semplicissimi, casalinghi, un po’ perché il presente ci ha abituato alla precarietà, e allora che cosa stai ad accumulare o a costruire se ti sgomberano ogni tre per due?; un po’ perché la nuova povertà (o sobrietà coatta) sollecita a rivedere le proprie necessità, e allora, sì, ci si può anche accontentare di poco, di quel poco che si ha.
L’uomo che non è contento di poco non è contento di nulla.
—Epicuro
Con la preziosa umiltà dei vinti, Bartolini/Baronio attraversano tutte le percezioni dello spazio, dello spazio domestico, cioè della propria vita rispetto alla vita altrui: difesa (tutelarsi), trasloco (rinnovarsi), comunità (unirsi), ristrutturazione (recuperare), ma
che ristrutturi se la casa è vecchia?
chiosa ancora una volta Bartolini. Disillusa, sì, sconsolata, cinicamente e frustratamente realista qua e là, ma mai rassegnata. Perché c’è un’umanità inestimabile a pulsare in questo piccolo spettacolo, quasi che quando si chiuderà segretamente tra i gemiti di un parto, nessuno, in fondo, potrà meravigliarsi di un tale rovesciamento.
Abitare lo spazio si fa, allora, coltivare il tempo, anche oltre la propria vita: accettando che il mondo non lo si può cambiare, non da soli, non in una generazione, ma pur si può inaugurare una continuità, un’eredità, senza annichilirsi nella sterilità più abietta.
La sublimazione della trappola
Concludiamo questo rapida ricognizione facendo ritorno a RomaEuropa. Ci spostiamo qualche chilometro a ovest, a Testaccio, oltre il Monte dei Cocci, negli ex macelli della Pelanda. Qui ieri sera il danzatore torinese Daniele Ninarello insieme al jazzista statunitense Dan Kinzelman, con Kudoku, ha dato vita a una vera e propria sublimazione della trappola spaziale.
In principio il buio. Un buio tangibile, lungo, abitato dai “respiri” del sax di Kinzelman, ora gonfi, ora graffianti, mai preludio di un «dopo» ma sempre calati nell’immanenza dell’«adesso per adesso». Poi un occhio di luce, a terra: stretto, ridotto, circoscritto, entro il quale il corpo di Ninarello si misura. A sua volta, anch’egli non combatte, non si impone, non affronta quel limite castrante con irruenza—lo abita, indagandolo e indagando sé in esso.
Se le composizioni sonore ruotano attorno a brevi partiture mandate in ripetizione e sovraincise, così il danzatore, man mano che il cono di luce si allarga, vortica ampliando la voluta delle proprie perlustrazioni: mai esposte, sempre rivolte in un’indagine interiore, dove il movimento si intinge di echi orientali: dal turbinio sufi (medioriente), alla gestualità del kathakaḷi (India), fino alla ritualità del kagura (Giappone).
Al punto che quando l’intera scena sarà illuminata, sconfinando anche sui primi spettatori, raccolti lungo i tre lati, la coreografia sancirà una mirabile sintesi di «qui» e «lì», di costrizione e superamento, ribadendo un aspetto fondamentale che la nostra cultura contemporanea dell’eterno rilancio (progresso, sviluppo, produzione, ecc.) ci ha portato a smarrire: laddove l’individuo sia centrato, laddove abbràcci la crisi, abbràcci i limiti che l’essere al mondo (rispetto a sé e rispetto agli altri) comporta, ecco allora che quegli stessi limiti, quella stessa crisi, diventano opportunità di elevazione, di rinascita, di armonia—e senza mai perdere il contatto con la terra, con lo spazio che si abita.
Margini per uno spazio condiviso
Questo è quanto. Chiaramente si può pensarla diversamente, niente impedisce di continuare ad assecondare i compartimenti stagni, la divisione precisa tra x e y, le scaramucce di quartiere, la gara a chi ha il sold out più grosso, insomma la differenza, la diffidenza e la concorrenza a tutti costi—per arrivare dove e per conquistare che, non si è capito. Non che non ci siano buone ragioni per pensare ciascuno ai fatti suoi, per carità, però è uno spettacolo misero che si ripete da troppo tempo, e rattrista vedere che, nonostante la decadenza generale, nessuno rinunci a recitare la propria parte. O come scriveva Curzio Malaparte all’indomani della Liberazione:
Mi sforzavo di pensare a Roma non come a un’immensa fossa comune, dove le ossa degli Dei e degli uomini giacciono alla rinfusa tra le rovine dei templi e dei Fori, ma come a una città umana, a una città d’uomini semplici e mortali, dove tutto è umano, dove la miseria e l’umiliazione degli Dei non avviliscono la grandezza dell’uomo, non dànno alla libertà umana il valore di una eredità tradita, di una gloria usurpata e corrotta.
— La pelle (1949)
Ascolto consigliato
In apertura: Mr. THOMS RisucchiAttore (2012), Tunnel del Quadraro. Foto ©Giulia Iani
ESPÆCE
Ideazione, Scene, Regia Aurélien Bory
Interpreti Guilhem Benoit, Mathieu Desseigne Ravel, Katell Le Brenn, Olivier Martin Salvan, Claire Lefilliâtre
Collaborazione artistica Taïcyr Fadel
Luci Arno Veyrat
Composizione musicale Joan Cambon
Ideazione tecnica Pierre Dequivre
Costumi Sylvie Marcucci, Manuela Agnesini
Regia generale Arno Veyrat
Regia di palco Thomas Dupeyron, Mickaël Godbille
Regia luci Carole China
Regia del suono Stéphane Ley
Automatismi Coline Féral
Direzione di produzione Florence Meurisse
Produzione Marie Reculon
Segreteria di comunicazione, Pubbliche relazioni Sarah Poirot
Ufficio stampa Dorothée Duplan (agenzia Plan Bey)
Canzone Winterreise (Le Voyage d’hiver) di Franz Schubert
Citazioni Georges Perec, Espèces d’espaces ©Éditions Galilée, 1974
Produzione Compagnie 111 – Aurélien Bory
Coproduzione Festival d’Avignon, TNT – Théâtre national de Toulouse Midi-Pyrénées | Le Grand T théâtre de Loire-Atlantique Nantes | Le théâtre de l’Archipel – scène nationale de Perpignan | Théâtre de la Ville – Paris | Maison des Arts de Créteil | Le Parvis scène nationale de Tarbes Pyrénées
Residenze La nouvelle Digue-Toulouse | La FabricA-Avignon | TNT-Toulouse | CircA-Auch
La compagnie 111 – Aurélien Bory è convenzionata dal Ministère de la Culture et de la Communication – Direction Régionale des Affaires Culturelles de Occitanie | Pyrénées – Méditerranée | Région Occitanie / Pyrénées – Méditérranée e la Ville de Toulouse
Riceve il sostegno del Conseil Départemental de la Haute-Garonne
Foto © Aglaé Bory
7 ottobre 2017
LETTERE ANONIME PER UN CAMMINATORE
ideazione Sara Garagnani, Meike Clarelli, Gabriele Dalla Barba, Federica Rocchi
con le voci di Beatrice Schiros e alcuni testimoni del quartiere
drammaturgia originale Gabriele Dalla Barba
composizione sonora e musica originale Meike Clarelli
cura visiva Sara Garagnani
cura Federica Rocchi
Produzione Amigdala/ Festival Periferico
con il sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio di Modena | Regione Emilia – Romagna
29 settembre 2017
CASUAL BYSTANDERS
ideazione, coreografia e regia Salvo Lombardo
con Lucia Cammalleri, Daria Greco, Salvo Lombardo
musica di Luc Ferrari
sovrapposizioni sonore Salvo Lombardo
disegno del suono Fabrizio Alviti
video e luci Luca Brinchi e Maria Elena Fusacchia
coproduzione Fabbrica Europa | Festival Oriente Occidente | CapoTrave/Kilowatt
con il sostegno di Anghiari Dance Hub
e di Inteatro Festival | DiD Studio/Danae Festival | Teatro Spazio Electa/ACS Abruzzo | Villaggio d’Artista | Verdecoprente Residenze | Centro di Palmetta | [Non] Museo
10 ottobre 2017
DOVE TUTTO E’ STATO PRESO
di e con Tamara Bartolini e Michele Baronio
drammaturgia Tamara Bartolini
scene e paesaggio sonoro Michele Baronio
collaborazione al progetto, assistente alla regia e foto Margherita Masè
collaborazione artistica Fiora Blasi, Alessandra Cristiani, Gianni Staropoli
suono Michele Boreggi
concept video Raffaele Fiorella
regia Tamara Bartolini/Michele Baronio
produzione Bartolini/Baronio | 369gradi
coproduzione Teatri di Vetro festival/triangolo scaleno teatro
con il supporto di Residenza IDRA (Brescia) e Armunia (Castiglioncello) nell’ambito del progetto CURA 2017
residenze Teatro Crest (Taranto) | Dracma Teatro – del Bello Perduto (Reggio Calabria) | Carrozzerie n.o.t (Roma) | Teatro del Lido di Ostia (Roma)
20 ottobre 2017
KUDOKU
coreografia, danza Daniele Ninarello
musica dal vivo Dan Kinzelman (sax, voce, elettronica)
drammaturgia Carlotta Scioldo
organizzazione Silvia Limone
debutto 17 – 18 giugno 2016 Sala Apollinee Teatro La Fenice, Biennale Danza 2016 – Venezia
produzione Codeduomo, Novara Jazz (curatore Enrico Bettinello)
supporto CSC – Centro per la Scena Contemporanea Bassano del Grappa, Fondazione Piemonte dal Vivo | Lavanderia a Vapore, Residency CAOS-Terni (con il supporto di Indisciplinarte e Associazione Demetra), Fabbrica Europa
2 novembre 2017