Dipartita finale, o il tabù della vecchiaia
Branciaroli all'inseguimento di Beckett
Samuel Beckett è uno dei drammaturghi più importanti del secondo Novecento e non solo; i suoi testi ormai immortali hanno rivoluzionato la forma teatrale allargandone fino all’estremo le possibilità, restituendoci una riflessione sulla vita tragica quanto necessaria. Sì, sono frasi da manuale valide per ogni occasione, ma se ci pensiamo meglio, qual è il posto del teatro di Beckett nel nostro presente? Fra i vari autori che ancora oggi cercano di portarne avanti l’eredità, Franco Branciaroli ci prova con Dipartita Finale, spettacolo ispirato a Finale di Partita, forse il testo più celebre di Beckett dopo Aspettando Godot e ancora più radicale. In uno spazio-tempo post-atomico Hamm, cieco e paralizzato su una sedia a rotelle e Clov, il suo servitore che non può sedersi, vivono in una routine alienante fatta di una conversazione che risente della mancanza di senso di una realtà in dissoluzione. Ora, Branciaroli ne immagina un ipotetico sequel: cosa succederebbe se Clov, alla fine, non se ne andasse?
Beckett, si sa, era ossessionato dal tempo: non stupisce quindi che abbia dedicato molta attenzione alla vecchiaia, ovvero a chi il tempo l’ha perduto un motivo di sofferenza eppure in alcuni casi di estrema liberazione (non rivorrei indietro i miei anni migliori, dice Krapp al suo nastro). Così, Branciaroli sembra muoversi lungo una domanda essenziale: è possibile trascorrere gli ultimi anni della propria vita in modo sereno pur sapendo di essere statisticamente più vicini alla morte? La riflessione acquista uno spessore ulteriore se si pensa al cast d’eccezione proposto al Teatro Parioli, non solo adatto dal punto di vista anagrafico ma rappresentante di un vero patrimonio del teatro italiano: Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai, Franco Branciaroli e il più giovane Maurizio Donadoni.
In una baraccopoli ai piedi del Tevere (scene Margherita Palli) si consumano così le vite dei barboni Pol (Pagliai), Pot (Tedeschi), e Supino, di nome e di fatto (Donadoni). Pol è costretto a letto e dorme sempre, il suo amico-servitore Pot invece non dorme mai; così, tra menomazioni fisiche e metaforiche, piccole nevrosi, una conversazione-citazione di Finale di partita che non porta a niente, si riproducono atmosfere vagamente beckettiane, fino all’entrata in scena della meretrice stessa (Branciaroli) munita di falce (una creatura ibrida a metà strada fra Matrix e il Settimo sigillo di Bergman). Si badi però che la morte avrà una presenza fugace: dopo un rapido pokerino, verrà messa subito ko da Supino, protagonista di un inaspettato monologo in cui si rivelerà per ciò che è: un eterno che ora aspetta un messaggio dai suoi colleghi immortali proveniente da altre galassie.
Qui l’assurdo però non risiede tanto nella fantascienza, quanto nel rapporto fra le notevoli capacità attoriali, indiscusse, del quartetto e un testo che risulta inadeguato a sorreggere tali capacità. Pur provvisto di una sua godibilità e con tanto di citazioni colte, questo infatti oltrepassa ben presto la proverbiale misura beckettiana, sconfinando in una comicità dalla battuta facile tendente spesso al volgare (secondo l’equazione volgare = divertente) senza conservare nulla di quell’ironia grottesca e insieme tragica di Beckett che racchiudeva tutta la densità drammatica dei suoi testi; i presupposti per una riflessione più incisiva sfumano così nell’intrattenimento.
Pur essendo ben lontani dal recuperare l’eredità di Beckett, le aspettative del programma di sala in compenso sono pienamente rispettate: uno spettacolo divertente e irresistibile!.
A proposito di Samuel Beckett:
Il tempo sublimato de L’amara sorte di Claudio Morganti, di Giulio Sonno
May B, a passi dolci e lenti nel cerchio interminabile di Beckett – Maguy Marin, di Giulio Sonno
Al Quadraro l’umanità in rovine di Beckett: Didi, Gogo e Godot di Markus Herlyn, di Sarah Curati
Ascolto consigliato
Teatro Parioli “Peppino de Filippo” – 12 febbraio 2016