Grandezza e incompiutezza – un rapporto sottovalutato. Curiosamente le opere più vaste del genio umano sono state spesso anche le più incomplete: L’uomo senza qualità, la Recherche, Finnegans wake; il fatto è che a un tratto questi grandi capolavori escono fuori dal proprio limite e si trasformano in un universo a sé stante, che tanto, forse tutto, vorrebbero contenere ma proprio quel tutto finisce per sfuggire loro via. E ciò accade proprio perché così è la vita: spropositata, incontenibile, mutevole, eppure necessariamente limitata.
Lucia Calamaro parte proprio da qui, dal limite per eccellenza, dal tempo: reale o inventato che sia, esso infatti rappresenta una delle più grandi ossessioni dell’uomo. L’epopea quotidiana – prima parte del progetto Diario del tempo -, tuttavia, non astrae l’individuo dal contesto per proiettarlo in una dimensione metaforico-esistenziale, ma lo coglie nella sua normalissima ed esasperante quotidianità, lì, alle prese con il mostro dell’abitudine. I protagonisti di questa non-storia sono tre uomini dei nostri giorni (Federica Santoro, Roberto Rustioni, Lucia Calamaro), sui quarant’anni, stretti fra piccole grandi aspirazioni e la dura realtà – specchio impietoso che costantemente rimanda loro l’immagine di ciò che avrebbero voluto essere ma non sono diventati.
Tutti e tre sono vittime di un’illusione prospettica che l’era moderna ha reso ancora più angosciante: l’ansia del tempo. Tempo che brucia le occasioni di affermazione – personale e sociale -, che schiaccia e stritola gli uomini nella macina della produzione: agire, darsi da fare, realizzarsi diventano allora le parole d’ordine di una corsa forsennata – per dove, però, non è dato sapere. Già, perché i personaggi di Lucia Calamaro sono ossessionati da ciò che non sono riusciti a perseguire, ma non si chiedono mai “Per farci cosa?”.
Così, nella costante ricerca di una gratificazione che non arriva mai, si isolano in un logorio fisico e mentale solipsistico. Ridicoli e commoventi nel loro desiderio di combattere il tempo, oscillano tra il pensiero centrifugo ma statico e le fughe iperboliche ma infruttuose: Federica disoccupata compulsiva esce a correre tutti i giorni, Roberto impiegato a part-time forzato prende lezioni di flamenco, Lucia precaria di educazione fisica si iscrive a un corso di filosofia. Ognuno a suo modo tenta l’inane rappresaglia all’inesorabilità del tempo: uno sforzo vano eppure stancante, “impegnante” dunque, e perciò sufficiente per lo meno a concedere la sopravvivenza.
In contrappunto a questo tempo schiacciante, l’eloquenza dello spazio: se nel primo atto il palco si riduce a uno stretto proscenio che evidenzia l’angosciante e confortante soglia domestica da cui i protagonisti non riescono a evadere, nel secondo il mondo esterno si trasforma in una scena più lunga che larga, vera e propria voragine che fagocita il singolo nell’indifferenza collettiva e sancisce la sua alienazione.
L’epopea quotidiana mostra dunque una contemporaneità tormentata dal desiderio di occupazione – lavorativa ed esistenziale – frustrato il quale si ripiega nella tragicomica alternativa della distrazione. Una costruzione notevole in tutti i suoi aspetti (su tutti, forse, l’interpretazione intensa e minimale di Federica Santoro) che nel suo intrigante connubio metafisico-popolare ha il potenziale per intercettare e stimolare nuovi pubblici; tuttavia le ridondanze drammaturgiche e l’eccessiva durata (circa tre ore) condannano lo spettacolo a condividere lo stesso fato dei suoi protagonisti: vogliono essere tante cose, ma innanzitutto non riescono ad essere sé stessi – compiutamente.
Teatro India, Roma – 9 ottobre 2014