#25: Troppa gente sull’Apetta
Dentro la Capoccia: racconti sul primo anno di vita nella Capitale
Provate a immaginare un’autostrada lunghissima che arriva, passando per le montagne del Trentino, fino al Sole. Immaginate di vederci su: una schiera di Apette Piaggio, tutte ammaccate, colorate, magari simpatiche, vecchiotte, a tre ruote; insieme a loro le macchine normali: Mercedes, Multipla, moto, taxi e qualsiasi altro veicolo vi venga in mente immaginando le rotonde e i semafori della Città Eterna.
Quelli con le macchine normali avranno diverse reazioni guardando quello stormo d’Apette di tutti i colori che vanno a due all’ora. Qualcuno dirà: Povere Apette che non possono andare più veloce di così!, qualcuno ne riderà, qualcuno non le noterà nemmeno però, a prescindere dalla reazioni degli automobilisti, potremmo affermare due inconfutabili verità:
1) Che quelle Apette esistono.
2) Che, a prescindere dalle reazioni, quelli che stanno dentro le macchine normali rimangono nelle macchine normali e quelli che stanno nell’Apetta rimangono nell’Apetta.
Capito cosa voglio dire?
No?
Ve lo spiego alla fine di questa telefonata.
LUI
«Federì, ma tu ti rendi conto di quello che hai fatto? Te la sei cercata! In un certo senso, secondo me, te la meriti pure. Ognuno è artefice del proprio destino, caro mio! Che pretendi? È normale che ad ogni azione corrisponde una reazione. È vero che chi la dura la vince, ma i treni – quando passano – bisogna prenderli al volo!»
E meglio un giorno da leone che cento da pecora; la gatta frettolosa fece i figli ciechi; il ladro si sente sempre derubato; la stupidità non si medica, e via discorrendo. No, non è una gara di proverbi: è la seconda conversazione telefonica della settimana con il mio caro amico Johnny Pietralata, professionista del Cinema, reparto scenografia.
Ecco la prima:
«Pronto?»
«Federicoooooooo!!! Carissssssimo! Come stai?»
«Non c’è male, grazie. Tu?»
«Bene bene. Senti: ho grandi notizie per te! Sta per partire un progetto per un lungometraggio: ho fatto il tuo nome come assistente alla regia. Il regista è un grandissssssimo amico mio, gli ho parlato di te, ed era moooolto interessato! Tu, eventualmente, nel periodo Febbraio/Marzo come sei messo?»
«Mai stato più disoccupato di così.»
«OTTIMO! Allora, se per te va bene, ti ho organizzato un appuntamento per domani pomeriggio, così vi conoscete e parlate: Via dei Polenghi 27, ore 15:00.»
A disposizione.
A diciotto ore di distanza da quel primo scambio telefonico mi ritrovo ad attraversare Roma da una parte all’altra, da solo, coi mezzi. Ho visto tram, autobus, stazioni della metropolitana, l’Altare della Patria, il Colosseo, lo Stadio, un elicottero, una Ferrari, una farmacia, un tostapane elettrico in una vetrina e chissà quante altre cose degne della massima attenzione. Qualcuno potrebbe legittimamente pensare che in quattromila e spicci anni di Storia, l’Umanità abbia fatto i più grossi passi avanti nella Medicina, nell’Architettura, nell’organizzazione del libero pensiero, nella Meccanica, nella Cucina o chessò – nell’Informatica. Però ecco, insomma, nessuno pensa mai al Cinema: elettricisti che mettono le loro braccia e la loro esperienza a disposizione del direttore della fotografia, visionario e preparatissimo artista che conosce a menadito tutti i trucchi e gli strumenti dell’illuminazione naturale e artificiale. Agli attori: padroni e allo stesso tempo esploratori del corpo. Alla Scenografa: psicologa dei colori e maestra del design di interni, maga trasformista degli ambienti. Alle ricerche meticolose dello sceneggiatore, che si ritrova studente di volta in volta, che metterà tutta la Realtà possibile a servizio della Fantasia sua o di qualcun’altro. Al regista, direttore d’orchestra di tutti questi uomini e donne così diverse tra loro, profondo conoscitore della natura umana, degli obiettivi fotografici e delle tecniche di narrazione. Insomma (potrei andare avanti per pagine e pagine): i processi che portano alla realizzazione di un unico prodotto filmico sono di una maestosità inenarrabile, non stamo a parlà de sarcicce.
Fatto sta.
Arrivo svizzeramente a Via dei Polenghi 27 alle 14:57 e imbocco la porta dello studio. Entro in una sala riunioni col tavolo di vetro e le sedie colorate, poster un po’ dappertutto e la classica mega finestra a parete, in fondo, lascia che i raggi del sole disegnino il contorno di una giovane donna sulla trentina, capelli raccolti a cipolla, scollatura artificiale e tatuaggi sulle braccia. Sorride.
«Ciao io sono Gaia Spina. Tu chi sei?»
Vado con tutta la pappardella: esposizione sommaria del curriculum, atteggiamento distaccato ma cordiale del Candidato, bla bla, bla bla, bla bla…
«Ah, devi essere il VOLONTARIO. Che bello! Che graaaaaande piaciiiiere conoscerti! Valerio mi ha parlato così bene di te! Allora, sei pronto per questa nuova sfida?»
Elaboro al volo una lista di risposte plausibili:
1) Volontaria ce sarai.
2) E chi sarebbe ‘sto Valerio?
3) Sfida? Che sfida? Non vedo nessun biliardino!
4) Oh be, insomma, non mi hanno spiegato un gran che, in realtà: di che cosa si tratterebbe esattamente?
Opto per la 4: in certe situazioni bisogna sempre contare fino a tre, prima di parlare.
«Allora: sta per partire un progetto mooooolto ambizioso. La troupe è composta da tutte le eccellenze del panorama italiano: la regia sarà il debutto per Valerio Busini Chigi – che sicuramente conoscerai: il fruttivendolo nello spot della Vodafone con Pirlo e Gattuso…»
E giù a sciorinare nomi e gesta della troupe d’èlite che accompagnerà il Venerabile Maestro in questa nuova gloriosa avventura: dal fonico di Cucina in Sabina all’operatore di Nonna ho perso le chiavi, passando per il direttore della fotografia che una volta ha offerto addirittura una pizza a Bertolucci.
«Me co’…mplimenti! Tutte eccellenze proprio! E il film di che cosa parlerà?»
«Ecco: il bello è proprio questo. La complessità sta tutta nella sceneggiatura: il film sarà una Commedia all’italiana, girata tutta in inglese per agevolare l’esportazione all’estero. Un film corale con sei personaggi… ah: tu con l’inglese come sei messo?»
«Me la cavo.»
«Perfetto! Bravo! Ti dicevo: sono questi sei personaggi di diversa nazionalità, sei medici che in diverse parti del mondo sono accomunati da un unico obiettivo: sconfiggere l’Ebola. Ecco, ti dicevo, la complessità della sceneggiatura: lungo l’arco del film verranno inserite delle info-grafiche con dei dati su questa malattia. In un certo senso lo possiamo considerare anche un po’ un documentario. Il regista e lo sceneggiatore hanno svolto un lavoro di documentazione che rasenta il maniacale; sono sicura che potranno spiegartelo meglio di me: tra poco inizia la prima riunione di produzione con tutta la troupe. Hai intenzione di fermarti?»
Cioè, un attimo.
Sta per arrivare un gruppo di persone, rappresentante di quattromila anni di progressi intellettuali, artistici e tecnologici che ha deciso di esprimersi facendo un film COMMEDIA ALL’ITALIANA, di STAMPO DOCUMENTARISTICO, CON TAGLIO INTERNAZIONALE sull’EBOLA e questa mi chiede se aspetto?
Ma io da ‘sta sedia non mi alzo manco con le cannonate!
«Ah, bene, sono contenta. Almeno vedrai il clima che c’è. Tu pensa: io ho iniziato proprio con loro. All’inizio non ero nessuno…»
E la voglia di informarsi lì fu forte (tipo: Perché scusa, mo chi sei?) ma mi trattenni e tacqui.
«… facevo la volontaria, proprio come te. Mi facevo il mazzo anche quattordici ore al giorno, sempre presa a pesci in faccia da tutti, l’ultima ruota del carro. Magari facevo pure qualche pompino. Poi ti ci abitui, ti ci affezioni. Diventi come l’ultimogenito di una grande famiglia. Guarda me: io lo so che cosa si prova. Ci sono passata: se vedo che sei in difficoltà, che non ce la fai, che passi un momento difficile puoi venire da me. Puoi contare su di me: il caffè me lo posso preparare anche da sola.»
Il caffè se lo può preparare anche da sola. Così ha detto.
«Mi farebbe molto piacere che tu ti unisci al gruppo.»
LUI
«Beh, è stata gentile, no?»
IO
«Sì sì Johnny, è stata molto gentile.»
LUI
«E poi che è successo? Sono arrivati gli altri della troupe?»
IO
«Sì sì, sono arrivati. Il regista è stato anche lui molto gentile. Mi ha detto che avrebbe avuto bisogno di un assistente e mi ha chiesto se ero in grado di assolvere a determinate mansioni.»
LUI
«Ed eri in grado?»
IO
«Credo di sì.»
LUI
«E allora?! Qual è il problema?»
IO
«Mah, non so. Gli ho chiesto quanto sarebbe stato il compenso, o se comunque era previsto un qualche tipo di rimborso per il mio lavoro.»
LUI
«Ma lo vedi allora!? Cioè questi ti offrono una possibilità del genere e tu gli vai a CHIEDERE I SOLDI? Ma che, sei matto?»
Capito adesso cosa voglio dire?
Vivo in quella malaugurata generazione compatita da tutti e aiutata da nessuno, circondata da persone che continuano a lanciarci pesci e a nasconderci le canne da pesca. Inseguiamo i nostri obiettivi a passo d’Apetta: magari vogliamo comprare una casa, o avere dei figli, andare un pomeriggio a Siena o fare un viaggio intorno al mondo, anche se solo per una volta.
Ci guardiamo intorno e che vediamo?
Vediamo professionisti, genitori, pensionati e gente stabile in tutte le salse che ci fa spallucce perché il Mondo in cui si sono fatti largo loro, non esiste più.
Vediamo raccomandati ingioiellati sulle loro decappottabili che ci sfrecciano accanto alzandoci il dito medio e facendosi una bella risata. E poi, tante Apette. Tanta, troppa gente che se la passa come (o addirittura peggio di) noi.
E allora smettiamo di guardarci attorno.
E facciamo l’unica cosa che a una persona dentro a un’Apetta sia dato fare.
Guardare avanti e puntare al Sole.