#21: Per una razionalità utile
Dentro la Capoccia: racconti sul primo anno di vita nella Capitale
Che cosa c’è dentro la nostra testa? Domanda difficile. Crediamo di avere il controllo totale delle nostre azioni e non abbiamo il controllo di un cazzo. Se no non ci verrebbe da ridere in chiesa o da piangere in pubblico. Viviamo con l’illusione di essere i padroni di noi stessi, e ne siamo gli schiavi. Sui pensieri, proprio non ne parliamo. Magari siamo lì a fare la fila dal fruttarolo e ci casca in testa quella volta che abbiamo fatto bungee jumping in Brasile. Ma non è che ci sta sfuggendo qualcosa? Se fossimo esseri razionali (come ci vantiamo di essere) agiremmo in base alla razionalità. Mi pare chiaro no? Eppure quando vai a stringere, la razionalità non è altro che una maschera per gli istinti. Gli istinti si sviluppano tramite l’esperienza e sono l’unica cosa che abbiamo. Prendete le coppie in crisi: che fanno le coppie in crisi? Si lasciano, giusto?
Ecco: Perché vi siete lasciati?
Perché lei è così e io sono così, perché eravamo troppo diversi su certe cose, perché perché perché… La maggior parte delle volte, si prende solo atto di un malessere. Noia, rabbia, voglia di ripicca, desiderio di libertà. Quello che è. Perdiamo tempo e parole in analisi ricoprendo un imprescindibile dato di fatto con informazioni e descrizioni in mille spiegazioni superflue, che non servono a niente e a nessuno.
Prima provi il malessere, poi tenti di spiegarlo.
Ma ha senso farlo? La spiegazione dovrebbe essere correlata a una comunicazione attraverso il Linguaggio che, nella maggior parte dei casi, potrebbe essere esaurita in non più di dieci o venti parole. La verità è che spendiamo una considerevole percentuale del nostro tempo su questa terra chiacchierando di argomenti che il nostro interlocutore ha già intuito dopo un secondo, come se facessimo girare la ruota di una bicicletta rialzata, che gira gira e gira sta sempre là. Buona parte delle parole che pronunciamo se le porta via il vento e non è un caso che quando qualcuno ci fa venire un’idea, ci arriva sempre con un po’ di ritardo: quante volte capita di esordire dicendo Pensavo a quello che mi dicevi prima…, come a dire che il resto delle parole che ancora stava pronunciando il nostro interlocutore le avesse dette solo per aumentare i decibel della stanza.
L’unica razionalità che ci è concesso di sfruttare è quella legata alla risoluzione dei problemi. Come faccio a passare da un lato all’altro del fiume? Costruisco una barca. Ecco: questo è l’equivoco che ha contaminato miliardi di esseri umani nel corso dei secoli: confondere la razionalità utile con quella dannosa, credendole facce di una stessa medaglia. L’analisi dura e pura, scacchisti a parte, non ha mai portato nessuno da nessuna parte.
Stavo giusto rileggendo queste scambi tra me e Microsoft Word, dettati da una qualche forma di THC assunta prima di andare a dormire quando entra la Coinquilina del Sud, carica di buste della spesa.
Apre la porta della cucina, appoggia le buste sul tavolo, mi saluta con la mano, e, senza dire una parola, se ne va.
Solitamente, quando qualcuno che sta a meno di cinque metri da me mi saluta con il solo gesto della mano, mi preoccupo sempre un po’. Di norma le cose sono due: o è molto triste, o ha talmente tanti cazzi per la testa che manco Mafalda che è pratica l’ha visti mai. Gente così concentrata a guardarsi dentro che non riesce nemmeno a far uscire la voce. Quanto sono belli!
È triste o pensierosa?
Tutt’e due?
Perché?
Forse già le manca la sorella che ha appena accompagnato all’aeroporto, forse pensa ai mille compiti che ha da fare, forse il cassiere del supermercato è stato sgarbato e sta ancora rosicando. Magari c’ha il ciclo e basta, che ne so.
Ne potremmo parlare.
Servirebbe?
Potrebbe sfogarsi e buttare fuori le preoccupazioni che le si sono annidate dentro: probabilmente non arriveremmo a NESSUNA SOLUZIONE, anzi, passeremmo il tempo a parlare, permettendole di buttare fuori fisicamente – nell’aria – le sue ansie fino a che non si senta ripulita abbastanza per riprendere le sue attività di sempre… ma il problema non si pone.
Rientra con quelle belle cuffione che più che a sentire la musica servono a isolarsi da tutta la marmaglia circostante. Non vuole parlare. La guardo mentre sistema la spesa in giro per gli sportelli bianchi della cucina, ondeggiando silenziosamente la testa, immersa nella palude dei suoi pensieri. Appena ri-esce si mette a passare l’aspirapolvere per tutta casa, cantando forte con quella voce tosta che le è stata concessa. Poi il bagno. Spolvera lo specchio, le piastrelle, riordina i saponi in giro, fa una cosa dopo l’altra, operosa e dedita come un ninja. Poi la camera, etc etc: magari si sta preparando per il concorso da netturbino, però insomma: se il fare, in quanto fare, fosse una cosa terapeutica, si sta riconquistando il suo benessere in silenzio.
Quando torna sta fresca e serena come una Pasqua.
Che cosa ho fatto io per tutto questo tempo?
Ho scritto.
Ho analizzato la situazione della casa e ho prodotto un sacco di parole. 1027. Non ci ho parlato, come lei non ha parlato con me, ma sta bene lo stesso.
Ecco, pensavo: se parlassimo tutti di meno, e solo quando è strettamente necessario, e utile, e bello, magari nell’aria ci sarebbe meno negatività e il mondo sarebbe pieno di persone calme, frighi pieni e bagni puliti.
O no?