Non è facile descrivere un disco del genere perché ogni parola spesa non renderebbe la bellezza di questo album. Siamo di fronte non solo al miglior lavoro italiano dell’anno ma ad uno dei migliori in assoluto di questo 2011 insieme a quelli di Wire ed Anna Calvi. Strana la vita anche per come si viene a conoscenza dell’esistenza di un gruppo: un amico che vive a Stoccolma mi fa sentire questo disco e con grossa sorpresa scopro che sono anche italiani.
Questo esordio rappresenta per il nostro paese un importante punto di rottura: la mia memoria non ricorda niente del genere. Oltre all’originalità, vi è da sottolineare la grande vena compositiva aiutata dall’utilizzo innumerevole di strumenti (e non a caso il gruppo si è ampliato, da duo a band allargata), la meticolosità degli arrangiamenti, la voce vibrante del cantante che sa essere una tiepida carezza ma anche una lama tagliente. Musicalmente racchiudono tutto quanto c’è di buono nel cantautorato degli ultimi quarant’anni con un predilezione per un folk nero, maledetto, rivestito di sonorità tarantolate e atmosfere western. Per fare alcuni nomi ci sentirete la profondità di Tom Waits, Leonard Cohen e Nick Cave (del suo periodo con i Bad Seeds), la capacità intepretativa di David Tibet, l’estro compositivo (sia per quanto riguarda i testi che la musica) di Bob Dylan e poi ancora Springsteen, I Calexico, le atmosfere diradanti delle canzoni di Matt Elliot e anche i più recenti Bookhouse Boys, un gruppo britannico semisconosciuto, ma che ha molte cose in comune con i Dead cat in a Bag.
Lost Bags potrebbe riferirsi a tante cose, ma essenzialmente si potrebbe interpretare così: potrebbe riguardare il lungo iter dello smarrimento delle valigie che spesso si trasforma in inferno (si rischia anche di non rivederle mai più) e quindi una sorta di riferimento allo smarrimento di una parte di se stessi o comunque di un qualcosa che ci appartiene (leggi legami affettivi). E la sensazione inziale con Last Train Home è proprio questa: inizio quasi drone, apocalttico, con un lamento spettrale in sottofondo e fisarmonica minacciosa che va ad aumentare lo stato di tensione e ci fa immergere immediatamente nel disco.
La seconda traccia Wasterground of your Lips ha un inizio coheniano ed una ballata, acida meravigliosa e disperata, dove entra prepotentemente un violino che lacera letteralmente l’anima. Whiter è già più rassicurante e dalle linee più dolci (“keep talking to me /I don’t really care what you say/ just a reminder to forget someday”) e con rimandi a suoni del sudamerica. Tesissima l’aria (straordinarie le distorsioni finali) di A rose and a knife (“I feel the rose, I feel the knife, I ate the sky, I close my eyes”) quasi uno spoken word che ricorda molto il folk apocalittico dei Current 93 e dei Death in June (cosi anche la title-track che è ancor a più spettrale).
The Stow-away song (a sea of shanty) ha un piglio e ritmo quasi rock, dove vengono fuori le sonorità balcane che il gruppo cita fra i propri riferimenti: stupendo il crescere della voce, l’intrecciarsi degli strumenti con le trombe protagoniste e una tagliente fisarmonica finale. Rallenta di nuovo il ritmo con una canzone (The Gipsy Song) quasi springsteeniana, soprattutto per la presenza dell’armonica (che rimanda alla straordinaria The River) che fa letteralmente l’amore con gli strumenti a corda.
Dopo l’intermezzo strumentale di Leapiz, arriviamo al pezzo più bello e più emotivamente coinvolgente: I can’t row no more che mi ricorda un po’ i migliori Mark Lanegan e il Bob Dylan più oscuro. Tre minuti di orgasmo emozionale. No Lust Left non è da meno ed è un altro bagno di brividi: il sinuoso e crudo incedere della chitarra, il controcanto e la drammaticità della tromba finale. Questo disco sembra non avere punti deboli: Sleeping Fields è un altro pezzo leggendario con un inizio che rimanda ai drone del primo pezzo ma che si scioglie in una splendida e solenne ballata con il pianoforte che dà il ritmo al pezzo e con gli altri strumenti che come un puzzle pian piano si incastrano, accrescendo il pathos della canzone.
Segue un altro pezzo strumentale, Dawn, che sarebbe la perfetta colonna sonora di un film di Sergio Leone o dei fratelli Cohen. C’è spazio anche per il blues drogato di Old Dog che vede la collaborazione con Liam McKahey (ex dei mitici Costeau di Jump in the River e Heavy Weather). Il disco si chiude con il minuto abbondante di Zbohom che mi ricorda molto i deliri delle canzoni ubriache di Matt Elliot. Il viaggio finisce così e mi ha fatto trasecolare positivamente.
Un disco imperdibile.