Danza Macabra – Luca Ronconi

Danza Macabra – Luca Ronconi

Il Teatro Metastasio di Prato apre la sua stagione con Danza macabra (coprodotto insieme a Festival dei 2Mondi e con la collaborazione di Mittelfest) per la regia di Luca Ronconi. Siamo alla seconda serata dal debutto toscano e il teatro è gremito. Sul palco troneggia un paesaggio dipinto: il mare lambisce una terra su cui si erge un faro e da cui si prolunga un corridoio che termina in una piccola abitazione.

Lo spettacolo sta per iniziare – come avvertono le luci – e davanti ai nostri occhi si apre una scenografia (Marco Rossi) che sembra scolpita in una cava di marmo, così familiare agli occhi degli abitanti di questa regione. Lividore, potenza e ieraticità per gli interni, aperti su una coppia funerea schiacciata in una claustrofobica vita coniugale. Sono Edgar (Giorgio Ferrara – direttore del Festival dei 2Mondi) e Alice (Adriana Asti – sua coniuge anche fuori dal palco), lui in uniforme e stivali neri, lei con una pettinatura corvina, ondulata sulla fronte, e un vestito cinereo. Più la pièce va avanti e più la danza di morte – testo di August Strindberg del 1901 – di questa coppia asfittica, che si chiede che senso abbia festeggiare venticinque anni di nozze e “squallore”, prenderà i contorni di una “mortifera routine” (come recentemente dichiarato su Il Tirreno dal regista); all’interno della quale l’arrivo di un estraneo, Kurt (Giovanni Crippa), ufficiale di quarantena e fautore della loro infelice unione, ravviverà sadiche pulsioni sotterranee.

Il testo svedese viene amputato, non si concede spazio ai figli se non per nominarli, e tutto ruota intorno a una struttura circolare – la casa-fortezza sull’isola; alcune battute tra Edgar e Alice che sembrano rispecchiarsi; i mobili che si spostano su un impianto scorrevole nascosto, per tornare, da ultimo, nella posizione di partenza – in cui quella che parrebbe una barca alla deriva, una volta passata la tempesta, torna ad oziare su una banale bonaccia ancora più inquietante. “Il gioco delle parti” diventa la presenza silenziosa di questa pièce dal ritmo parossistico.

È questa esasperazione – nel limine che un gioco di specchi non può che amplificare – a risucchiare le vite dei tre personaggi, e a spingerli ad addentarsi l’un l’altro come vampiri intrappolati in un digiuno metaforico. Ed è proprio quest’aspetto tenebroso a indurci in quello che forse è un inganno teatrale – magari solo immaginato, magari solo nostro – tra le ombre di personaggi dalle vite mancate.

In Pornografia (precedente spettacolo di Ronconi – la recensione) un animale notturno, un lepidottero, dalla forte connotazione metamorfosante, rischiava di bruciarsi dentro una lampada ad olio. Posizionato quasi sul proscenio sbatteva le ali tra attrazione e repulsione verso la fonte luminosa da cui non riusciva a separarsi; allo stesso modo, un legame irrimediabilmente morboso stringeva le due coppie in scena – una di adolescenti, l’altra di vecchi.

Là un’ode che amplificava una pornografia immaginaria, qui una pièce coatta a castrazione. Il voyeurismo che là incendiava una spirale di danza dai volteggi tentacolari, qui è spento dal meccanismo di una marcia sul posto attorno alle proprie ceneri. Là una trasposizione teatrale millimetrica, preziosa e prismatica di un romanzo di Gombrowicz spesso censurato, qui un testo di Strindberg che riesce comunque a far echeggiare le sue sfaccettature più viscerali e animalesche anche se soffocato in un tabernacolo.

Ma forse si tratta appunto di un inganno: un bagliore lontano che si infrange, si rompe contro un gioco cieco di specchi.

Teatro Metastasio, Prato – 6 novembre 2014

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