Il fantastico. Un dialogo, probabilmente
Un dialogo tra Danilo Arona e Michele Pastrello, uno scrittore di "thriller" e un cineasta sperimentale
Danilo Arona, scrittore, giornalista e saggista. Musicista negli anni Settanta e Ottanta con vari gruppi pop-rock quali i Privilege e Quel pazzo mondo. Ha scritto più di quaranta libri tra saggi e romanzi e ha partecipato a diverse antologie di genere thriller, noir e horror. Lo studioso Franco Pezzini lo ha inserito tra “i padri fondatori del fantastico italiano”.
Michele Pastrello, regista. Vive tra Venezia e Treviso, dopo gli esordi nel mondo del cortometraggio thriller con tematiche a sfondo sociale premiati a Pesaro, Torino e Courmayeur, nel 2014 vira il suo stile concentrandosi su microfilm di qualche minuto dal forte impatto emotivo, abbandonando l’uso della parola e concentrandosi sulla forza evocativa delle immagini. Nel 2010 legge Santanta di Danilo Arona e si innamora del suo romanzo.
(Danilo Arona) Ciao Michele. per quel (non poco) che ho visto della tua filmografia, tu per mio conto sei un regista tematicamente realista con un approccio e uno sguardo decisamente “fantastici”. Sei d’accordo? E, se sì, è una scelta consapevole o di pancia?
(Michele Pastrello) Sono d’accordo, è proprio così anche se, ammetto, me lo hanno fatto notare un paio di anni fa, mica ci ero arrivato da solo. Una volta sono incappato su questa riflessione “La fantasia assembla tratti dispersi per costruire un oggetto nuovo. L’immaginazione si stabilisce al centro di un oggetto reale.” Ecco, con il mio percorso, soprattutto quello più intimo degli ultimi anni, credo che la mia immaginazione si riverberi nella pancia di chi guarda. Mescolo realtà e fantasia, dove la prima è la condizione umana occidentale che (inconsapevolmente) ha bisogno di quella poesia e assurdità che sembra costantemente respingere. Dipende da con che occhi sei cresciuto, diceva lo psichiatra svedese Axel Munthe: «Sono molto meravigliato di sapere che c’è gente che non ha mai visto uno gnomo, non posso fare a meno di provare compassione per costoro. Qualcosa non va. La loro vista non funziona bene».
(D.A.) Quali sono i tuoi modelli di riferimento (se esistono?), hai dei registi che ami solo vedere indifferentemente dalla loro presunta ispirazione?
(M.P.) Certo, sono i registi che hanno segnato la mia crescita, Michael Mann, Ridley Scott e quelli misconosciuti che con un misconosciuto film hanno fatto altrettanto (tipo Stolen di Anders Anderson). Non riesco rispondere alla domanda sui modelli di riferimento, ma so che io, benché non faccia veri e proprio film – soprattutto ultimamente -, parto comunque dal linguaggio cinematografico, per quanto personale, come struttura di concepimento di ogni mio lavoro.
(D.A.) Michele, sei l’unico regista che ha manifestato serie intenzioni di trarre un film dal mio romanzo Santanta. Tenendo conto che è un lavoro molto difficile da rendere in immagini “cinematiche” – il mostro è il vento e tutta la storia procede per suggestioni e sottrazioni sino a una catastrofe finale – e che la risposta che puoi darmi è soltanto teorica, come ti approccieresti al romanzo, ammesso e (non) concesso di avere a tua disposizione il necessario budget?
(M.P.) Santanta è il tuo capolavoro Danilo, quel libro andrebbe distribuito in tutte le biblioteche per far capire che mondo ha dentro Danilo Arona. Ed è quel mondo lì che mi piace, quelle ellissi, quelle sottrazioni. Santanta è ambientato a Marina del Rey, se non rammento male, e racconta l’indagine di un giornalista in una terra straniera afflitta da modernità e corruzione, e delimitata da un paesaggio ampio e inquieto come i protagonisti del libro. Il protagonista assoluto, Manuel, è un tipo di essere umano che adorerei raccontare: disincantato, fragile ma con un occhio che ricorda quello di Arkady Renko di Cruz Smith, capace di appoggiarsi dove gli altri occhi non si appoggiano.
Ora sono io che chiedo a te, Danilo. Perché tu senti che il mio approccio registico potrebbe tradurre in immagini la rarefazione del tuo romanzo Santanta? E che cosa ci rende così simili io e te, nel vedere le cose e nel rielaborarle con le immagini io e le parole te?
(D.A.) Perché sei un maestro dell’allusione. Il tuo linguaggio è thrilling, nel senso che inchiodi l’attenzione di chi guarda anche quando visualizzi qualcuno che (all’apparenza) non sta facendo niente. E poi, in maniera forse non consapevole, hai un approccio alla Lynch (passamela…).
(M.P.) Te la passo, i fan di Lynch però no, sappilo.
(D.A.) Sei realista perché filmi la realtà, ma hai questo diabolico dono, prerogativa di pochi, di far partecipare in tempo reale alla possibilità di altre dimensioni “sotto” quella che si vede. E ci stanno pure dei fantasmi fuori dalla cornice – i tuoi personaggi che guardano spesso fuori campo o “altrove”. Insomma, fai il cinema come piace a me. E, sotto questo aspetto, ritengo Awakenings uno stupendo e solido “manifesto”. E straordinario. Infine, come non citare le tue incredibili e travolgenti colonne sonore? Trasferendo tutto quanto su un ipotetico Santanta cinematografico, chi meglio di Pastrello – secondo l’umile parere di chi ha scritto il libro – per creare un pregnante climax ascendente, fatto di tanti momenti di “sfogo”, verso l’attacco finale con il vento che svela il suo vero volto? Già ti vedo, mentre costruisci il The Birds di questi tempi… Dai, a sognare non si fa del male.
(M.P.) Leggendo alcune delle tue opere (non le ho lette tutte, lo ammetto), quel che percepisco di Danilo Arona è un autore che, pur spaziando in più generi, non manca mai di ricordarsi che l’umanità è una entità smarrita e sola, in cerca di appigli, per quanto invisibili. Infatti io il tuo romanzo episodico credo più famoso, Cronache da Bassavilla – all’interno della storia mistery basata sul macrovirus Melissa e di un misterioso sito che ricordava una ragazza misteriosamente scomparsa– ci vedo proprio questa umanità. Ti chiedo, quanto l’essere umano, con tutte le sue contraddizioni, paure, sogni, desideri, egoismi ti affascina e incute paura?
(D.A.) Mi è toccata la sorte di vivere in tempi pericolosi per quanto affascinanti. Come ha scritto Paul Virilio in un fondamentale libro che s’intitola Città Panico, da quasi vent’anni ci alziamo ogni mattina con la più o meno consapevole aspettativa di catastrofe, che sia planetaria o individuale. Mi fanno ridere quelli che s’illudono, per fare un solo esempio, che l’apocalisse di Aleppo non li riguardi perché avviene a migliaia di chilometri e al massimo ne riescono a percepire pochi frammenti nello schermo televisivo. Le immagini entrano e ti scolpiscono dentro, ci piaccia o meno. E la Tanatosfera – non ricordo chi ha coniato il termine, ma è tragicamente geniale – trasporta virus della mente, virus reali e pulsioni di morte. Zone Zero, come le definiva il mio compianto maestro Sergio Altieri. Ecco, nella mia narrativa alla fine parlo poi sempre di questo… L’attesa, febbrile e paurosa, di una catastrofe in procinto di arrivare. Nulla è più appagante sotto il profilo creativo, ovviamente se hai il dono della scrittura. Io non lo so, ma ci provo. Con onestà e sincerità.
Credo anche io che viviamo in tempi pericolosi, anche se credo anche che, a dire il vero, siano sempre stati tempi pericolosi, da che mondo è mondo. Mio padre ti direbbe che c’era la fame, la guerra, i fascisti (che a quanto pare da queste parti stanno assurdamente tornando di moda…). Forse sta tutto nel nostro essere di passaggio verso l’oscurità, nella paura della paura tranne di quella dell’abituarsi a tutto. Pare che quel buontempone di Schopenhauer dicesse «Che cosa ci si può aspettare da un mondo in cui quasi tutti vivono solo perché non hanno ancora trovato il coraggio di spararsi?». Ma io penso che lui fosse troppo disilluso. Invece io ti cito un dialogo di un film che, da esperto di cinema, sicuramente hai visto, cioè Donnie Darko:
Gretchen: Non capisco, che vuoi dire?
Donnie: È complicato.
Gretchen: Dai.
Donnie: È come avere una forza nel cervello che ti porta in qualche posto…
Gretchen: In qualche posto familiare?
Donnie: No, ma ogni volta che mi sveglio mi trovo sempre più lontano da casa.
Danilo, dimmi quanto lontano da “casa” sei tu, se sei lontano?
(D.A.) Un po’ scherzando e un po’ no, potrei risponderti che, essendo un Gemelli, sono alquanto schizoide. Perciò riesco a essere lontano da casa, soprattutto quando tento di narrare, e quando ho bisogno di ricompormi, vado a rientrare. Il vero problema è “lontano da dove” che è poi una delle tematiche neppure troppo sotterranee del tuo cinema. Laddove il demiurgo creatore che vaga tra gli universi (paralleli?) non si capisce giustamente dove stia. Sappiamo chi stiamo osservando ma non sappiamo chi osserva… Appunto, puro thriller. Il che farebbe dire, superficialmente, che Michele Pastrello è un regista che usa con grande perizia tecnologica le immagini e le tecniche generali del filmare per arrivare a dimostrare una tesi. Il che non è. O meglio, secondo me, non è solo questo… In buona sostanza, voglio dire che nel tuo cinema c’è anche – soprattutto – una grande tensione morale che si sposa con una travolgente macchina spettacolare ed emotiva. Un bel concetto di autorialità. Che ne pensi?
(M.P.) Sai, finora non ho mai concepito qualcosa lavorando a tesi. Ammetto che sono molto più istintivo, molto più sensoriale. A quanto pare, finora, nel mio modo di raccontare per immagini, la gente si sente coinvolta. Non tutti eh, chiaro, ma molti di quelli con cui ho avuto modo di confrontarmi. Come dicevamo all’inizio, nonostante i miei lavori ad un certo punto si allontanino (apparentemente) dalla realtà, la gente li sente intimi, e non solo spettacolo. Nexus, il mio ultimo microfilm di cui parlavi nella premessa di questa nostra chiacchierata, fa parte di questa categoria, anche se è in assoluto il lavoro più mio: una casa, quella in cui sono cresciuto. Un padre, il mio, Angelo Pastrello. Degli oggetti, quelli della mia famiglia. E una fotografia dove è ritratta Carla Camporese. Non è una storia né biografica, né autobiografica, sarei uno scemo autoreferenziale. È una storia di affetto e solitudine e di legame, una cosa che appartiene a tutti. In fondo, quasi ogni singola scena è stata riprodotta da noi nella nostra vita, e a quella intimità io parlo.