Daniele Luchetti
100 registi (e tantissimi film) che migliorano una vita
Storico collaboratore di Nanni Moretti fin dai tempi di Bianca, bersaglio della voglia di litigare di Nanni in una delle più divertenti sequenze di Aprile, Daniele Luchetti è uno dei pochi autori italiani contemporanei per il cui cinema non è fuori luogo spendere l’impegnativa etichetta della commedia all’italiana, tradizione gloriosa la cui formula molti hanno dimenticato, impoverito e tradito.
L’esordio alla regia avviene nel 1988 con Domani accadrà, commedia picaresca ambientata in Maremma. Con Il Portaborse nel 1991 raccoglie il primo grande successo: affilata e amara messa in scena dell’arroganza del potere, incarnato dall’infame ministro Cesare Botero (un grande Nanni Moretti) cui si contrappone l’onestà ingenua di un professore diventato portaborse e ghost writer (Silvio Orlando) per necessità prima di scoprire l’abissale corruzione del ministro. Un film potente che ha avuto la tempestività di dire tutto proprio all’alba dell’esplosione di Tangentopoli, un film che vent’anni dopo mantiene intatta la sua sconvolgente attualità.
L’Italia dipinta nei film di Luchetti è un luogo di continua ridefinizione dei concetti di onestà e responsabilità, in cui si muovono personaggi umanamente imperfetti, tentati dalle possibilità di scorciatoie, afflitti dal desolante contesto di un Paese in cui l’onestà non paga quasi mai. Storie di ricerca e di riaffermazione, cui dà spesso corpo il talento di un attore come Silvio Orlando, come ne La scuola dove è professore-eroe nella sua normale attenzione verso alunni che meritano di più del disinteresse dei suoi colleghi; o in Arriva la bufera, visionaria commedia in cui è avvocato imbroglione e innamorato in un paese che merita di finire sommerso da una biblica pioggia di spazzatura.
Negli ultimi anni Luchetti ritrova questa capacità mimetica di incarnare l’italiano ambiguamente sospeso tra eroismo e fallimento, sballottato da ideali che non conoscono la realtà delle cose e un’ambiziosa ricerca della felicità in Elio Germano, protagonista di Mio fratello è figlio unico, storia anni Settanta di due fratelli su opposti schieramenti di estremismo politico, e La nostra vita. Interpretazione quest’ultima che vale a Germano la Palma d’Oro a Cannes, nel ruolo di un muratore in lotta strenua per assicurare il futuro alla famiglia in un mondo in cui l’unica regola è il denaro e tutto il resto rischia di finire inerme e senza senso come il cadavere di un clandestino, morto sul lavoro nero, e murato in un palazzo.