Dalla parte degli ultimi
Teatro delle Bambole in scena con Il fiore del mio Genet
Esterno. Giorno. La rassicurante melodia che prende il posto delle sempre inquietanti note di Angelo Badalamenti presenti nei titoli di testa è Blue Velvet di Bobby Vinton, uno dei più celebri esponenti del rock romantico degli anni Sessanta. La macchina da presa si muove dall’alto verso il basso, riprendendo un quieto cielo blu che termina su una bianchissima staccionata adornata da incantevoli rose rosse. Una serie di stacchi ci mostrano dei pompieri sorridenti sul loro camion, una scolaresca che attraversa la strada, una signora che sorseggia una bevanda calda mentre, intuiamo, il suo bel maritino coltiva l’impeccabile prato della linda abitazione. Insomma, un normale scorcio di vita di un’idilliaca cittadina americana. Ma qualcosa va per il verso sbagliato.
Ecco subito il crack. Il tubo dell’annaffiatoio si inceppa tra le piante e, dopo aver tentato di tirarlo a sé, il buon padre di famiglia stramazza al suolo. Attacco di cuore. Ma il vero colpo di scena lo abbiamo qualche secondo più tardi, quando la macchina da presa abbandona senza scrupoli l’azione principale per insinuarsi tra l’erba, fino a immergersi all’interno del terreno dove, in un assordante brusio, troviamo degli insetti brulicare nell’oscurità. Spesso lo ignoriamo, ma ce n’è di vita sul nostro pianeta.
La sequenza appena descritta è l’incipit di Blue Velvet (1986), il quarto film diretto da David Lynch. La descrive, con il suo inconfondibile inglese, anche Slavoj Žižek nel documentario di Sophie Fiennes, Guida perversa al cinema (2012), vero e proprio cortocircuito tra cinema e psicanalisi frutto di un articolato discorso su Es, Io e Super-Io. Del resto, sia il regista statunitense che il filosofo sloveno sono particolarmente noti per la loro attitudine ad addentrarsi in territori meno noti o familiari, riuscendo a far emergere la luce anche dall’ombra, dalle zone più oscure e ignorate. Caratteristica che ritroviamo – e considerando la fonte d’ispirazione (Jean Genet) proprio non poteva essere altrimenti – anche in Fiore del mio Genet, spettacolo di Teatro delle Bambole (regia Andrea Cramarossa) che rientra nel progetto della compagnia pugliese, La lingua degli insetti – Cofanetto 6: Farfalle, una sorta di ricerca di connessioni e affinità tra il misterioso mondo degli insetti e quello degli esseri umani. Sì, gira e rigira gli insetti tornano sempre.
Ma non è l’unica analogia. Prendiamo ad esempio l’inizio della messinscena. I due protagonisti (Federico Gobbi e Domenico Piscopo), con il volto coperto da maschere che donano loro le sembianze di uccelli, simulano una processione portando a spalla una statua votiva. Il clima diventa subito disteso, quasi rilassante, con i due regali ed eleganti volatili di color giallo acceso che raggiungono il centro della scena mentre nell’aria aleggiano cinguettii accompagnati da una voce che ne precisa la specie di appartenenza. Ma anche qui la quiete dura poco. Basta togliere la maschera e può avere inizio l’esplorazione delle zone più recondite dell’animo umano.
Dalla raffinatezza quasi serafica dei pennuti alla brutalità oscena degli sconfitti, infatti, il passo è molto breve. Tra rudi dialoghi, pose provocatorie e sconce allusioni, prendono vita i marinai tanto amati dallo scrittore francese, i ladruncoli, i criminali, gli uomini soli con il loro corpo eternamente in vendita. Riecheggia il loro passato spesso senza possibilità di scelta e il loro presente vissuto in qualità di eterni vinti, sopraffatti da un’esistenza che li mette costantemente ai margini senza alcuna opportunità di appello. E nel continuo alternarsi e mescolarsi di sacro e profano, di quiete e tempesta, ecco emergere la luce dall’ombra, la dignità dall’orrore, la sconfortante illusione dalla perdizione.
Da Nostra signora dei fiori a Diario del ladro passando per Le serve, l’opera di Genet è totalmente omaggiata, tuttavia senza citarla direttamente. Si tende a parteggiare per chi non ha voce in capitolo, per chi non sembra avere diritto di ascolto, per i più deboli che per una volta – come avviene nei romanzi e nelle drammaturgie dello scrittore francese – sono sradicati dal loro ruolo di subalterni e messi in condizione, se non di imporsi, almeno di stare sullo stesso piano di quelli che quotidianamente consideriamo vincitori.
Lo spettacolo termina così come era iniziato, con un’altra funzione religiosa, questa volta in onore proprio di Genet. E mentre lo sguardo si perde nel ritratto – collocato sul fondo del palco – del drammaturgo francese, ritornano nella mente le storie delle vite spezzate appena vissute in scena, legate talvolta in maniera fluida e delle altre, forse, meno linearmente. Un’ostinata lotta che, oltre ai personaggi, ingloba anche il pubblico, scomodamente seduto sul proprio posto e al quale viene chiesto di prendere una posizione non convenzionale, di decentrare lo sguardo, provare a contestualizzare, abbandonarsi a due strade differenti ma plausibili, difformi ma dannatamente connesse. Una sorta di aporia esistenziale che troppo spesso abbiamo deciso di ignorare. Interno. Notte.
Ascolto consigliato
IL FIORE DEL MIO GENET
Spettacolo itinerante tra i bassifondi dell’anima
drammaturgia: Andrea Cramarossa
attori in scena: Federico Gobbi e Domenico Piscopo
costumi e sartoria: Silvia Cramarossa
maschere: Luigia Bressan
allestimento e regia: Andrea Cramarossa
produzione: Teatro delle Bambole
col sostegno di CEA Masseria Carrara, Collinarea Festival, LUCCICA – Festival delle Arti e Comune di Bari – Assessorato alle Culture, Turismo, Partecipazione e Attuazione del Programma
progetto di ricerca: LA LINGUA DEGLI INSETTI – Cofanetto 6: Farfalle
Teatro Duse, Bari – 3 novembre 2017