L’inferno ‘A Porte Chiuse’ di Andrea Adriatico
Da Sartre a Regeni passando per un'Italia in lutto
L’inferno sono gli altri
È una delle battute finali nonché summa di A porte chiuse (1944). Ma per Sartre – ci spiega Stefano Casi, che per il nuovo omonimo spettacolo di Andrea Adriatico ha ritradotto il testo francese – ciò non significa che l’inferno sia la presenza degli altri, la convivenza con loro, bensì il fatto che gli altri detengano un segreto che non potremo mai scoprire: come appariamo. Gli altri sono il nostro specchio – e il loro è un riflesso perverso che ci fa penare.
Tutti questi sguardi che mi divorano… […] Così è questo l’inferno. Non l’avrei mai pensato…
Il regista abruzzese però non mette in scena Sartre né propone quella che si definirebbe un’attualizzazione, egli parte piuttosto dall’attualità per scavare nell’umano. I tre personaggi diventano qui propagazioni di alcuni protagonisti della recente cronaca italiana: i Casamonica (qui Monica Casa), l’uxoricida Pellicanò (qui Gabbianò) e una traduttrice trasferitasi in Egitto, convertita all’Islam per amore, poi vessata e picchiata fino alla morte. Questi – i dannati. Le loro tragedie – il loro inferno personale. La compresenza delle loro vite (concluse) – la loro dannazione.
Sul palco bolognese di Teatri di Vita la scena è ritagliata all’interno di un’alta parete che svetta a metà palco: qui è incastonata, come una sezione perfettamente cubica, una stretta stanza, minimale, dominata da un ingombrante letto rialzato a due piazze. Il materasso è coperto da un drappo nero su cui si intravedono solamente tre cuscini: uno verde, uno bianco, uno rosso. L’Italia è in lutto.
O l’Italia è un lutto?
I tre protagonisti cadranno letteralmente dall’alto, uno dopo l’altro, sputati giù sul letto da un largo tubo nero che sporge fra le luci. Custode di questo scarno infernetto un buffo angelo nero stile discoclub con tanto di cornine e ali kitsch. Il demonietto serve solo a introdurre poche regole ma chiare (e già intuiamo che il vero padrone non è un presunto Satana ma gli stessi “ospiti”). Qui non si spegne la luce, qui non si esce, qui non si lavano neppure i denti. Perché qui non si dorme. Qui non si vive. Qui si sta e basta. Senza troppe costrizioni, così è.
Insomma, è come se con Adriatico l’inferno fosse la pena di ritornare “sulla” vita senza la possibilità di redenzione, come se si negasse alla morte il sollievo della fine, come se l’oltretomba diventasse la tribolazione in uno stato di consapevolezza finalmente acquisita. Una visione, in fin dei conti, più classica e morale rispetto a quella sartriana.
Sarà così che poco a poco gli animi dei tre, confessandosi, si esaspereranno sempre di più, scoppiando in un triello di accuse, invettive, crisi, che tuttavia non sembrano o non riescono a raccontare altro se non la propria storia passata e il dolore che questa reca con sé.
Ed è proprio in questo, ci sembra, che il pur legittimo tradimento di Sartre fatica a sviluppare la riscrittura. Se la camera sartriana era un luogo simbolico in cui si ritornava all’esistenziale, a pulsioni che vanno oltre il vissuto personale imperniando la riflessione sull’identità come trappola dello sguardo altrui; qui invece il teorema «l’inferno sono gli altri» si convertirà in «l’inferno siamo noi» ma senza che ciò sia sostenuto da una drammaturgia sufficientemente solida.
L’impressione infatti è che Adriatico abbia ceduto a una certa urgenza ideologica (smarrendo la visione – drammaturgica – totale): denunciare coloro che fanno l’inferno in vita (agli altri) lasciandoli tribolare post mortem nell’inferno delle loro coscienze.
Tra video e audio testimonianze tratti dalla cronaca, musiche pop e una certa affettazione attoriale da teatro di prosa, aleggia un’aura posticcia volutamente pop che viene a scolpirsi (specchio riflesso) nella goffagine di questi tre individui condannati all’irrequietudine di un grande letto che non concede l’eterno riposo: ridicoli tutti eppure non per questo meno crudeli (anche se va notato che solo due dei tre sono “rei”, la terza – la traduttrice in Egitto – è “vittima” e quindi non si spiega la sua presenza se non per fare da gancio all’inserimento del caso Giulio Regeni che appare, a nostro avviso, forzato e anche un po’ patetico – nel senso che è più un tributo sentito che un contributo ragionato).
Forse l’inferno siamo noi, forse lo è la nostra cara bella Italia buffona, o forse è il fatto che non sappiamo neanche confessarcelo e andiamo avanti con questa farsetta in cui, prima o poi, ci scappa il morto. E un morto è sempre vero, troppo vero. E allora, a quel punto, che si fa? Mostrare, denunciare, celebrare non crediamo sia la soluzione.
A PORTE CHIUSE
uno spettacolo di Andrea Adriatico
ispirato a Jean-Paul Sartre
drammaturgia di Andrea Adriatico e Stefano Casi
con Gianluca Enria, Teresa Ludovico, Francesca Mazza
e con Leonardo Bianconi
con la cortese partecipazione di Angela Malfitano e Leonardo Ventura
cura Daniela Cotti, Alberto Sarti, Saverio Peschechera e Giulia Generali, Laura Grazioli
tecnica Salvatore Pulpito
con il supporto tecnico di I fiori di Marisa, Lady Rose
una produzione Teatri di Vita, Akròama T.L.S.
con la collaborazione di Teatri di Bari
con il sostegno di Comune di Bologna – Settore Cultura,
Regione Emilia-Romagna – Servizio Cultura, MiBACT