Cronache dal lido #8 – Venezia 77
A 91 anni e al suo 45esimo documentario, Frederick Wiseman torna a Boston, sua città natale, per filmare i complessi e sfaccettati meccanismi della municipalità cittadina. Riunioni, incontri, conferenze, manifestazioni sportive, momenti di attività degli uffici, della Polizia Locale o di semplice manutenzione stradale: tasselli di un grande affresco “civico”. Il regista, uno dei più grandi maestri del cinema documentario mondiale, continua a filmare le istituzioni americane e il funzionamento della “macchina della democrazia” dal suo interno con una grande attenzione alla contemporaneità e senza mai tradire il suo modo di fare cinema, così coerente nell’arco di oltre mezzo secolo di attività. A distanza di soli due anni dalla presenza a Venezia con il suo Monrovia Indiana, Frederick Wiseman prosegue il suo viaggio al centro dell’idea stessa di comunità nella società americana, filmando un altro e diverso contesto urbano. Dalla piccola realtà rurale di provincia passiamo ad una delle maggiori metropoli americane, sin dalla sua nascita luogo fondativo per la storia degli Stati Uniti e oggi più che mai centro nevralgico di grandi processi di innovazione sociale, dalle conquiste sui diritti civili fino alla tutela delle minoranze e alla lotta alla povertà. Non è un film programmaticamente anti-Trump City Hall, ma nella scelta, così cruciale, del luogo su cui focalizzare la sua attenzione, Frederick Wiseman deve aver tenuto in grande considerazione l’importante lavoro che l’amministrazione del sindaco Walsh sta portando avanti nella città negli ultimi anni. Lavoro che, secondo il regista, rappresenta ed incarna tutto quello che l’attuale inquilino della Casa Bianca (quasi mai chiamato per nome) non è. Girato tra il 2018 e il 2019 nell’arco di 11 settimane accumulando ben 104 ore di girato, il film ha raggiunto, attraverso un mastodontico lavoro di montaggio durato 10 mesi, la durata definitiva di 4 ore e 40 minuti, che Wiseman con grande autoironia ha definito una “versione breve” del film. Un’esperienza immersiva, impegnativa e gratificante, che come ogni opera di questo grande cineasta è capace di trasportarci dentro le regole e i confini di mondi da noi lontani, che il cinema ci offre l’opportunità di conoscere. (Stefano Lorusso)
Und morgen die ganze Welt (E domani un altro mondo), film in concorso di Julia von Heinz, pone uno dei classici e più complessi interrogativi politici: il fine giustifica i mezzi? In questo caso, se la democrazia e i suoi valori sono sotto attacco fino a che punto ci si può spingere per difenderli? La risposta sta tutta nella storia di Luisa (Mala Emde), ventenne studentessa di giurisprudenza, ricca e con nobili origini, la quale entra a far parte di un collettivo di sinistra impegnato a contrastare pacificamente le iniziative e manifestazioni dei gruppi neo-nazisti tedeschi. Il suo compito dovrebbe essere quello di offrire consigli legali di fronte a possibili problemi giudiziari, ma Luisa si mostra da subito convinta che un attivismo pacifico, solo di disturbo, non porti da nessuna parte. Colpita e sedotta da Alfa (Noah Saavedra), il più incline nel collettivo a compiere azioni violente, inizierà a credere sempre di più nella lotta frontale contro il fascismo e l’odio razziale, cercando di evitare, fino alla fine, un arrendersi che darebbe ragione a una frase che il padre le rivolge: «Se prima dei trent’anni non sei di sinistra sei senza cuore, se lo sei dopo i trent’anni sei senza cervello». La storia è insomma sostanziosa e piena di spunti di riflessione ma non così adeguatamente supportata della regia e della sceneggiatura che, per mettere a fuoco ogni aspetto, perdono di vista il punto di partenza. La psicologia dei giovani viene esplorata marginalmente, temi come l’amore, la rabbia, la politica, la famiglia sono mescolati assieme con una superficialità di fondo che toglie forza e emozione alla pellicola. Alla regista va comunque il merito di aver ribadito con vigore e chiarezza la pericolosa presenza di gruppi di estrema destra nella Germania e nell’Europa contemporanea. (Giulia Angonese)
Kiyoshi Kurosawa, impossibilitato a essere presente al Lido, non ha mai avuto il timore di cimentarsi con più generi, dall’horror/thriller al dramma sentimentale. Questa volta, con il suo Supai no tsuma (Wife of a Spy), in concorso, si confronta un film storico, attraverso una spy story ambientata nel Giappone degli anni ’40, che ha per protagonista Satoko (Yu Aoi), giovane donna sposata con Yusaku (Issey Takahashi), commerciante di Kobe. Con la Seconda guerra mondiale ormai più che prossima, l’aria in città è tesa, la paura del nemico e delle sue spie locali da parte delle autorità è altissima. Yusaku decide di partire con il nipote per la Manciuria, alla ricerca di nuovi contatti lavorativi, lasciando a casa la moglie. La sua decisione di prolungare il viaggio mette in allarme la donna, sempre più sospettosa verso il marito. Quando poi questo tornerà la sua fiducia vacillerà definitivamente: le viene detto dal risoluto ufficiale della polizia, suo amico di infanzia, che il marito è tornato in compagnia di una donna poi trovata morta. E ancora, oltre a questo, spunterà fuori anche un breve filmato sugli orrori e torture attuati dall’esercito giapponese nell’occupazione della Manciuria. Che uso vorrà farne il marito? Chi è lui realmente? Con una regia elegante, quasi patinata, in grado di controllare ogni dettaglio e di prendersi anche il giusto tempo per omaggiare il cinema giapponese del passato, il film si rivela un ottimo lavoro. Del resto, amore, fiducia, spionaggio, guerra, orrori sono elementi narrativi che, come dimostrò Lussuria – Seduzione e tradimento – film certo più conturbante di Ang Lee, vincitore a Venezia nel 2007 –, se gestiti con maestria possono dar vita ad attraenti storie sugli ossimori dei rapporti d’amore. (Giulia Angonese)