Cronache dal Lido #8
La Mostra del Cinema di Venezia, giorno per giorno, raccontata dai nostri inviati
Gatta Cenerentola – Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone
«Sarà stato San Gennaro!» esclama uno dei registi in sala quando alla fine della proiezione si parla di Gatta Cenerentola come di un miracolo italiano. E se non è davvero un miracolo, gli si avvicina di tanto così: il cinema d’animazione, in Italia, sembra sempre un’utopia produttiva. Invece loro, Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri, Dario Sansone (quelli di L’arte della felicità) hanno dimostrato innanzitutto che il talento non è in vendita e poi che ogni cosa, se si vuole, è possibile.
L’ispirazione per Gatta Cenerentola viene primariamente dalla fiaba seicentesca scritta da Giambattista Basile, poi ibridata con una storia napoletana contemporanea dai vaghi tratti cyberpunk: è così che Cenerentola diventa la figlia di un magnate buono che ha regalato alla città di Napoli un polo di Arti e Scienze, la matrigna una donna invischiata con la camorra, il Re un camorrista che ha trovato la formula per camuffare la cocaina in scarpe di cristallo da smerciare facilmente in tutto il mondo.
Gatta Cenerentola è incredibilmente privo di difetti. Ogni cosa è curata nei minimi dettagli da uno staff ridotto a una ventina di persone e il tutto è sublimato dalle voci eccellenti, tra le altre, di Alessandro Gassmann, Maria Pia Calzone e Alessandro Gallo. Ne esce un lungometraggio potente e magnetico che risveglia l’orgoglio italiano e che avrebbe benissimo retto il confronto con gli altri film in concorso, se solo fosse stato ammesso alla sezione principale.
«Mi sono solo affidata a questi scellerati che bevono tantissimo caffè», risponde Maria Pia Calzone a chi le chiede incredulo come sia stato possibile arrivare a tanto. E mentre aspettiamo con brama il loro film successivo, auguriamo il meglio alla squadra di Gatta Cenerentola. Che sia l’inizio di una meritata carriera di successo e soddisfazione.
Ammore e Malavita – Manetti Bros.
Underdogs del cinema italiano da quasi 20 anni, i Manetti Bros. tornano per le strade di una Napoli a mano armata con Ammore e Malavita, ancora un omaggio a quella vasta filmografia degli anni ’70, un poliziottesco pieno di colpi di scena contaminato dal romanticismo dei musicarelli.
Come in un moderno marchese del Grillo, Donna Maria (Claudia Gerini) pianifica una stangata alla camorra e una via di fuga da Napoli inscenando la morte del marito – il boss Don Vincenzo (Carlo Buccirosso) – grazie all’aiuto di un suo sosia e delle “Tigri” Ciro (Giampaolo Morelli) e Rosario (Raiz), le loro letali guardie del corpo. Uomini si nasce, malavitosi si muore.
È evidente come Antonio e Marco Manetti si divertano ancora molto nel fare Cinema. Trafficando con i generi, sono capaci di apportare un’elettrizzante energia anarchica in rapporto a cui conta poco che la narrazione sia qua e là stentata, confusa o si areni. Con una sceneggiatura che non difetta certo di ritmo e tensione, e la presenze di attori dal carisma giusto (ormai Giampaolo Morelli è per i Manetti quello che Fabio Testi era per Enzo G. Castellari), il film garantisce una visione incalzante e coinvolgente.
Se anni fa sembrava quasi un miracolo vedere il loro L’arrivo di Wang nella sezione Controcampo; gli applausi in Sala Grande per Ammore e Malavita – in concorso – possono far sognare che il film arrivi a ricevere l’attenzione della distribuzione cinematografica. Cinema popolare vincete che rende Scampia vitale e colorata come Bollywood.
Sweet Country – Warwick Thornton
«I bianchi, per adattare il mondo alla loro incerta visione del futuro, continuavano a cambiarlo; gli aborigeni dedicavano tutta la loro energia mentale a mantenerlo com’era prima». Così scriveva Bruce Chatwin in Le vie dei Canti, uno dei diari di viaggio più belli mai dedicati al continente australiano. Una terra dolce, in cui generazioni di immigrati bianchi hanno visto l’opportunità di costruire un paradiso per i loro figli. Quella terra rossa, così vasta e imperscrutabile, ospitava però già i suoi figli legittimi. Una generazione rubata, a cui i bianchi ha sottratto tutto: la terra, le famiglie, l’identità, il passato ed il futuro. E la libertà più importante di tutte, quella di “restare poveri”.
Più volte il cinema ha raccontato il genocidio degli aborigeni australiani, in film spesso riusciti, anche grazie a meravigliosi scenari, ma penalizzati in Italia da una scarsissima distribuzione. Sweet Country, diretto da Warwick Thornton, già autore del fortunato Samson and Delilah (2009), si inserisce in questa filmografia con una lettura storica del conflitto tra bianchi e aborigeni in chiave western. Ogni scelta è calibrata e funzionale: dalle interpretazioni degli attori (nel cast il sempre grande Sam Neill) alla sceneggiatura, esaltata da una regia rigorosa ed essenziale. Sembra non mancare davvero nulla a Sweet Country per poterlo considerare un grande film. Qualcosa alla premiere veneziana in Sala Grande, invece, mancava sicuramente: nessun membro della comunità aborigena che ha recitato nel film era presente in sala. Forse perché, come recita uno dei personaggi del film, “le cose dei bianchi” portano, ancora, soltanto guai.