Cronache dal lido #7 – Venezia 75
Opera senza nome – Florian Von Donnersmarck (Concorso principale)
In competizione nella sezione ufficiale Opera senza nome di Florian Von Donnersmarck è un bellissimo dramma storico che scompone con una narrativa su larga scala la complessa storia della Germania del ventesimo secolo. Spaziando dal 1937 al 1966, il racconto è incentrato sull’esperienza del pittore Kurt Burnert (Tom Schilling), personaggio inventato seppur modellato sulla figura reale dell’artista Gerhard Richter, sulla sua vita tumultuosa alla ricerca di una personale voce artistica e sullo scontro con il sinistro padre della donna che ama (Paula Beer), facoltoso medico e “Asssasino dei Malati” nella Germania nazista (Sebastian Koch). Il film è una tesi sull’inganno del cambiamento, rappresentato dall’immagine degli ex nazisti che tolgono le loro divise nella parte est del muro di Berlino oppure da come la visione oppressiva dell’arte sotto il regime sia stata sostituita da una diversa ma ugualmente restrittiva, ovvero il Realismo socialista. L’ultima opera di Florian Von Donnersmarck ha il passo di un classico ed è capace di articolarsi in numerose line narrative senza mai confondere, parlando di sentimenti intimi reale e profondi, che sconvolgono.
Toni Cazzato
Frères ennemis – David Oelhoffen (Concorso principale)
Comunità maghrebina di una anonima banlieu parigina. Manuel (Matthias Schoenaerts) e Driss (Reda Kateb) sono due amici di infanzia cresciuti nello stesso quartiere, che hanno percorso strade molto diverse. Il primo ha scelto la via del crimine, il secondo quello della legge. Anche su versanti opposti, il filo invisibile dell’amicizia li lega tuttavia in modo indissolubile, fino a quando le conseguenze più estreme del loro operato non pregiudicano qualsiasi tentativo di redenzione. A distanza di 4 anni dal precedente, e ben più affascinante Loin des hommes, il regista francese David Oelhoffen torna per la seconda volta in concorso a Venezia con un thriller “d’autore”, teso e ben scritto, ma a cui manca la statura del grande cinema. Gli spunti di riflessione sociali e politici sono forse l’elemento più interessante in un film che si posiziona a metà strada tra il cinema di genere e lo sguardo autoriale, senza dimostrare purtroppo né l’incisività del primo né la maturità del secondo.
Stefano Lorusso
Vox Lux – Brady Corbet (Concorso principale)
Dopo aver riflettuto sulla nascita del germe maligno dei regimi dittatoriali e totalitarismi all’alba del Novecento con L’infanzia di un capo (2015), Brady Corbet con il suo secondo lungometraggio Vox Lux torna a Venezia, nel concorso principale non più nella sezione Orizzonti, tracciando quello che definisce un ritratto del XXI secolo, come cita il film in apertura. Celeste, classe 1986, all’età di tredici anni si salva miracolosamente da una sparatoria avvenuta nella sua scuola, per mano di un compagno. Dopo settimane di riabilitazione, le ferite sembrano piano piano rimarginarsi, nonostante la giovane continui ad avere una bendatura sul collo, dove è entrato il proiettile che non ha leso organi vitali. Da una canzone cantata in chiesa per commemorare le vittime del massacro parte la carriera musicale della giovane. Il linguaggio musicale pop, e performativo, vengono visti dal suo produttore (Jude Law) strumenti atti a narrare un’esperienza per natura irrappresentabile e incomunicabile. La costruzione del personaggio divistico, pubblico risulta dunque essere estremamente legata al processo di rielaborazione del trauma. Natalie Portman, che interpreta Celeste da adulta, firma un altro patto con il diavolo dopo quello stipulato ne Il cigno nero (2010). Una parabola di nascita e rinascita, metamorfosi e trasformazione (Prey – Pray), dalla fede religiosa alla tossicodipendenza. Le ferite interne non si sono rimarginate, la lunga performance del terzo atto è il canto del cigno, il termine ultimo dell’accordo stabilito con il demonio. Dall’immediatezza delle immagini traumatiche alla loro spettacolarizzazione, dall’atto di testimoniare alla voglia di apparire, di mostrarsi, di essere ricordati, di risplendere sotto luci e strass mentre si nascondono i segni del trauma passato. Sembra essere la protagonista, non la sorella (Stacy Martin), ad non aver trovato il proprio “angle”, prospettiva, interpretando un personaggio figlio e figurazione della cultura del trauma (post 11 Settembre) in cui stiamo vivendo.
El Pepe, a Supreme life – Emir Kusturica (Fuori concorso)
La noche de 12 anos – Alvaro Bacher (Orizzonti)
José Alberto Mujica Cordano, pubblicamente conosciuto come Pepe, è stato ospite d’onore, a suo malgrado, della 75esima mostra del cinema di Venezia con ben due titoli che lo ritraevano. Dico così perché la sua fama di uomo del popolo lo rende noto al mondo per la sua semplicità e per aver scelto la vita rurale, caratteristiche in forte contrapposizione con le dinamiche divistiche e da red carpet che orbitano intorno a questa kermesse cinematografica mondiale. Così è stato anche a Venezia, dal momento che dopo la proiezione del documentario dedicatogli da Emir Kustrica, Pepe si è prontamente defilato, grande piccola parentesi di umiltà in un festival delle celebrità. Un uomo con una storia che va raccontata e fatta conoscere: dalla militanza nelle fila guerrigliere dei Tupamaros, passando al suo arresto ed isolamento di dodici anni dal mondo esterno durante la dittatura militare, fino alla presidenza dell’Uruguay terminatasi felicemente pochi anni fa. “El Pepe, a Supreme life“, è un documentario spensierato e dal tocco intimo che ritrae un’amicizia d’eccezione, momenti di condivisione personale come quella del mate, silenzi e sorrisi, e la storia con la S maiuscola, quella di Pepe, raccontata dal regista Emir Kustrica. Tramite una serie di interviste e immagini di repertorio si cerca di ripercorrere gli ultimi giorni di presidenza del presidente del popolo, un uomo pubblico al servizio del suo “querido pueblo“, un filosofo con teorie sociali, che utilizza parole semplici e dirette per esprimere concetti complicati, usando spesso madre natura come metafora. Il ritratto di un uomo comune che trae spunto dalla delicatezza e bellezza di un fiore e che lascia al proprio paese, e al mondo, un modo e uno sguardo differente sulla politica e sull’essere uomo politico nel ventunesimo secolo. “La noche de 12 anos“, diretto da Alvaro Bacher, allarga l’attenzione del pubblico, non più solo su Pepe, ma anche su altri due suoi compagni di vicissitudini, il poeta Mauricio Rosencof e Eleuterio Fernandez Huidoboro, ostaggi della dittatura militare per dodici anni. Tratto dal romanzo “Memorias del calabozo“, questo film ha come centro quello di narrare i lunghi anni di isolamento imposti da un regime dittatoriale spaventato dalle loro ideologie. Se non puoi eliminare fisicamente un ideale, puoi rendere il veicolo di quest’ultima inerme e fuorigioco, lavorando su un lungo processo di privazioni come quella del sé. Un film scandito dai giorni che passarono in isolamento, sempre in movimento, dove diventa difficile creare dei punti fissi, delle cose o dei beni a cui aggrapparsi. Unica arma, per non impazzire è attaccarsi ancora più forte alle proprie idee e a quel sentimento di umanità che tanto mancava in quei luoghi claustrofobici e asettici delle carceri. Una storia, inno alla libertà fisica e di pensiero, espressa tramite le mancanze e le privazione di qualsiasi genere e forma.
Alberto Morbelli