Cronache dal lido #5 – Venezia 77
A Novocherkassk, URSS, il 2 Giugno del 1962 uno sciopero di operai, sospettato di attività anticomunista, viene sedato nel sangue dal braccio armato del KGB. Tra le persone scomparse c’è la figlia diciottenne di Lyudmilla, membro del partito comunista locale. La donna è una convinta militante che nutre una fiducia incrollabile negli ideali comunisti e un profondo disprezzo per ogni forma di dissenso. L’imperversante crisi economica e i metodi sempre più brutali della dittatura accrescono però sempre di più nella popolazione l’avversione nei confronti di uno stato che non incarna più alcun ideale rivoluzionario. Tra i più importanti autori del cinema sovietico dell’ultimo mezzo secolo, Andrei Konchalovsky torna in concorso a Venezia dopo le fortunate partecipazioni nel 2012 con The Postman’s white nights e nel 2016 con Paradise, entrambi premiati con il Leone d’Argento per la Miglior Regia. Dear Comrades è un film che guarda alla generazione che ha combattuto ed è sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale con la certezza che fosse giusto morire per la patria, e che nel dopoguerra ha visto crollare i propri miti e tradire i propri ideali. Ed è un duro atto di accusa contro ogni operazione di occultamento storico, quello che Konchalovsky inscena in questo suo ultimo film: il sangue versato sulle strade, che il potere vorrebbe letteralmente cancellare con nuovo asfalto, non può deve mai essere dimenticato e rimosso. Anche se non ispirato e sorprendente come nei più recenti tasselli della sua sterminata filmografia, il maestro russo, oggi ottantatreenne, non manca di lasciare il segno in questo concorso con un’opera personale, intensa e, ancora una volta, di grande rigore formale. (Stefano Lorusso)
Seconda metà del 1800, contea di Schoharie, Stato di New York. Abigail (Katherine Waterstone) e Dyer (Casey Affleck) sono una coppia di giovani coloni immersi nella remota wilderness del Nuovo Mondo. La loro è una esistenza che scorre senza sussulti tra piccole incombenze quotidiane e prolungati silenzi. Dyer è appassionato di meccanica e vive per il suo lavoro di agricoltore, Abigail trascorre le sue giornate in casa cercando di superare il dolore per la perdita prematura della figlia. L’esistenza della donna sarà profondamente sconvolta dall’arrivo di una coppia di vicini, Tallie (Vanessa Kirby) e suo marito Finney (Christopher Abbott). Tallie comincia a frequentare sempre di più la casa di Abigail, e tra le due donne si consoliderà un sentimento impossibile tanto da esprimere quanto da eludere, tenuto lontano dagli occhi dei rispettivi mariti ma destinato a segnare le loro esistenze. Al suo secondo lungometraggio dopo l’esordio nel 2014 con Sleepwalker, presentato al Sundance Film Festival, la giovane regista Mona Fastwold regala al concorso veneziano un elegante e trattenuto melodramma, classico nella sua struttura ma puntellato da scelte stilistiche (di scrittura e di regia) che lo elevano al di sopra di un qualsiasi prodotto medio del genere. Il ritratto che emerge delle due protagoniste è straziante senza essere retorico. Abigail e Tallie sono due donne costrette a sognare una promised land sulle pagine di un atlante, il loro sentiero è fuori dalle mappe delle terre conosciute, negato ad ogni possibile esplorazione. Vero valore aggiunto del film sono le quattro interpretazioni del cast, su cui svettano quelle delle due attrici protagonisti, in un anno in cui la Mostra, e sicuramente anche il suo palmares, sarà ricordata per una fortissima connotazione femminile nel numero e nella qualità delle proposte. Per l’ottima Vanessa Kirby si tratta addirittura del secondo film da protagonista in concorso, dopo l’ancora più convincente A pieces of a woman di Mundruczo. Una doppietta che non potrà lasciare indifferenti i membri della giuria. (Stefano Lorusso)
L’iraniano Majid Majidi si presenta al Concorso con un dramma sul lavoro minorile. Non certamente nuovo nell’affrontare il tema dell’infanzia (basti ricordare tra gli altri I ragazzi del paradiso del 1997), il regista iraniano fissa il suo sguardo su quattro ragazzini di Teheran, tutti con famiglie problematiche alle spalle e costretti a lavorare. Ad Ali, leader del gruppetto, viene affidato, da un criminale della zona, il compito di entrare in una scuola del quartiere per raggiungere attraverso le fognature un tesoro nascosto. Una volta iscritti alla Scuola del Sole, istituto privato pensato per dare un’istruzione e un futuro ai ragazzi di strada, tra una lezione di matematica e una fiducia crescente nei propri mezzi e nei loro insegnanti, i protagonisti iniziano a scavare sotto le aule per raggiungere il tesoro sul quale hanno a lungo fantasticato. Majidi per tutto il film non cede alla tentazione di staccarsi dalla prospettiva dei bambini, seguendoli nella loro quotidianità difficile, già adulta ma ancora in grado di aprirsi al divertimento tipico dell’infanzia. Questo permette allo spettatore di essere coinvolto nella scoperta avventurosa del tesoro e di riflettere, al tempo stesso, sull’estrema rilevanza dell’istruzione per il futuro di una vita. Con qualche frangente di impatto e di commozione, il film affronta un tema importante, scegliendo la via di meccanismi narrativi certo semplici ma costantemente carichi di sensibilità. (Giulia Angonese)