Cronache dal lido #4 – Venezia 77
Il 14 Dicembre 1976 la macchina del vicequestore di Roma Alfonso Noce, responsabile dei Servizi di sicurezza antiterrorismo per il Lazio, viene assaltata da due terroristi dei Nap, Nuclei Armati Proletari. Nello scontro a fuoco perdono la vita un agente di polizia e uno dei due terroristi. Il vicequestore, gravemente ferito, riesce a sopravvivere dopo un delicato intervento chirurgico e a fare ritorno a casa, dove lo attende la sua famiglia. Testimone nascosto di questo episodio è il piccolo Valerio, figlio di Alfonso, che dal balcone di casa ha immortalato con i suoi occhi il momento che di lì in poi avrebbe segnato profondamente la sua vita. Claudio Noce, regista di PADRENOSTRO, è quel bambino, diventato oggi cineasta desideroso di elaborare un momento così delicato della sua storia personale attraverso il linguaggio cinematografico. Al suo terzo lungometraggio per il cinema e misurandosi con la sfida più importante della sua carriera, Claudio Noce tenta di intrecciare i fili dell’esperienza autobiografica con la metafora politica, nel racconto dell’amicizia tra Valerio, piccolo, biondo e “borghese” con Christian, più grande e navigato di lui, selvatico e “proletario”. La fantasia offre al piccolo Valerio la possibilità di immaginare una conciliazione degli opposti tra vittime e carnefici, tentativo di superamento di quel trauma con cui avrebbe dovuto fare i conti per tutta la vita e delle logiche della violenza dietro la lotta armata. Il gioco dei simbolismi si fa però, soprattutto nella parte finale, troppo scoperto e diverse scelte stilistiche in linea con una estetica da videoclip lasciano perplessi. A non convincere è soprattutto un utilizzo troppo invadente della musica, che con una serie di brani di musica leggera banalizza in alcuni passaggi chiave una messa in scena già piuttosto patinata e autocompiaciuta. Bravi comunque Pierfrancesco Favino, tra i produttori del film, e i due giovani interpreti, sebbene la crescita del loro rapporto, fulcro intorno a cui è costruito tutto il film, avrebbe avuto bisogno di una migliore messa a fuoco. (Stefano Lorusso)
Nato nel 1898 a Bonito, paesino in provincia di Napoli, Salvatore Ferragamo è stato uno dei più grandi geni della creatività e della imprenditoria italiana. Un uomo in grado di attraversare diverse epoche reinventandosi sempre e superando gli ostacoli più imprevedibili, senza mai venire meno alle sue qualità fondamentali: determinazione, istinto, curiosità, desiderio di imparare, amore per la famiglia. Una eredità oggi tenuta in vita da figli e nipoti, che di quel padre e nonno scomparso troppo presto conservano un ricordo indelebile. Non stupisce che Luca Guadagnino abbia sposato con entusiasmo il progetto di raccontare in un documentario biografico la vita di Salvatore Ferragamo. Osservando attentamente i percorsi artistici dello shoemaker e del regista si possono cogliere molti tratti in comune, a cominciare dall’essere entrambi uomini del sud che in giovane età hanno sentito la necessità di abbandonarlo. Entrambi non hanno resistito alle sirene del sogno (e del mito) americano e dal suo cinema sono stati adottati. E’ dettagliato e amorevole il capitolo che nel film di Guadagnino tocca questa specifica parte della vita di Ferragamo, il cui racconto è impreziosito dalla testimonianza di Martin Scorsese. Agli albori del cinema muto, prima ancora che Hollywood fosse colonizzata dagli studios delle grosse case di produzione, Ferragamo partecipa alla realizzazione di scarpe per i set dei film di Rodolfo Valentino e Lilian Gish, sancendo quel sodalizio che lo avrebbe portato a realizzare lungo l’arco della sua carriera scarpe per i più grandi divi della settima arte. Sud, America, cinema, creazione, artigianato, industria, pubblicità: Guadagnino ha scelto Ferragamo per parlare anche di sé stesso, e il risultato è uno dei film più importanti di tutta la sua produzione. (Stefano Lorusso)
Il film di Susanna Nicchiarelli mette in scena la vita di Eleanor Marx, morta suicida poco più che quarantenne, in quella che fu una “tragedia socialista”, giusto per citare il titolo di una delle più importanti monografie (di C. Tsuzuki, 1967) scritte sulla figlia del celebre Karl. Chiamata affettuosamente Tussy, Eleanor (una solida Romola Garai) era la figlia prediletta, colei che, con determinazione e impegno, soprattutto dopo la morte del padre nel 1883 – scena con cui si apre la pellicola – partecipava a iniziative sindacali e politiche in Europa e negli Stati Uniti. Il suo profilo di donna colta e impegnata socialmente, attenta alla questione del lavoro minorile e della parità di genere, convive però faticosamente con la solitudine della sua vita affettiva. Sempre nel 1883, conosce infatti Edward Aveling (Patrick Kennedy), attivista inglese, uomo ambiguo e inaffidabile che darà il colpo di grazia alle fragilità di un’Eleanor già alle prese con la dolorosa rivalutazione della figura paterna, una volta scoperto che Frederick, il figlio della governante Helene, è suo fratellastro. La Nicchiarelli è brava a ritrarre nella sua radicalità questa contraddittoria coesistenza di un’energia politico-intellettuale con un’incomprensibile remissività verso Aveling, di cui Eleanor tollera tradimenti, spese eccessive e debiti; del resto si percepisce uno studio serio e accurato della biografia della donna. Manca, invece, una pregnante attenzione al contesto storico che avrebbe permesso un coinvolgimento maggiore e un’attualizzazione della figura di Eleanor più centrata: l’oppio e le immagini delle lotte politiche accompagnate da musica rock-punk non bastano a inquadrare la Londra di fine Ottocento, pullulante di polemiche politiche, di posizioni diverse nell’ambito del socialismo e prossima, come tutta l’Europa, a cambiamenti culturali. (Giulia Angonese)